Il destino è un’altra cosa

 

vedoveCi sono situazioni e difficoltà che vengono subite in silenzio, perché ogni ribellione sembra inutile: anzi, in verità non viene neppure in mente di ribellarsi o protestare. Si pensa che le cose debbano andare così e se una è sfigata debba essere sfigata fino in fondo. Stamattina, sul mio profilo pubblicavo questo sconsolato aggiornamento.

“POST PARZIALMENTE PERSONALE MA CON VALENZA GENERALE (perché di certe situazioni non se ne sa nulla fin quando non si vivono)
Vediamo un po’ se qualcuno (magari fra i politici che sono fra i miei amici facebook) mi toglie qualche dubbio.

Francesco, neo matricola di Filosofia, ha mantenuto il diritto alla contitolarità dell’assegno di reversibilità fino al 30 di giugno. Veramente ha sostenuto l’esame di stato a luglio, ma tant’è. Dal momento che l’unica titolare resto io e che ho il mio stipendio, secondo la legge Dini che è rimasta in vigore solo per la reversibilità (e per gli assegni di invalidità), l’assegno è stato ulteriormente tagliato del 50%. Quindi, fino a giugno percepivamo una quota dell’80% (60 % la vedova, 20 % il figlio studente), ora siamo scesi al 30 %.
Francesco nel frattempo si è immatricolato, pagando regolare tassa di iscrizione, ha cercato una stanza, pagando caparra e prima quota di affitto, ieri ha ufficialmente cominciato l’università da fuori sede: perché da anni i corsi sono semestrali, e il semestre comincia nella seconda metà di settembre per concludersi a dicembre. Ma l’inizio ufficiale dell’anno accademico è novembre. Quindi l’inps ristabilirà il diritto di mio figlio solo a dicembre (ovvero il mese successivo al momento in cui tornerà ad avere i requisiti). Nel frattempo, naturalmente attingo ai risparmi: che purtroppo non si riformano più, stante la situazione di crisi generale. Teniamo conto che a novembre l’acconto IRPEF (dovuto perché appunto percepisco assegno di reversibilità) trattenuto in busta paga, prosciugherà il mio stipendio.
Vorrei osservare che mio marito, morto di tumore al pancreas, aveva comunque pagato i contributi e che dunque non si tratta di prestazione assistenziale. Non mi lamento, perché so che molti sono messi peggio di noi (esodati, disoccupati, cassintegrati). Solo mi sembra che la faccenda non sia equa (rispetto, ad esempio, a fenomeni come pensioni d’oro e simili). E mi pare anche che le cosiddette “famiglie vedove” (formula orrida, ma tant’è) siano sostanzialmente invisibili, forse perché non hanno forza contrattuale e sono, per lo più, sulle spalle di donne. Ci sarebbero altre considerazioni da fare, ma mi fermo qui”.

Alcuni lo hanno commentato, altri lo hanno condiviso: persone comuni che, ovviamente, restano colpite dalla patente iniquità della situazione, oppure gente che si trova nella medesima condizione. In questa sede vorrei aggiungere qualche altra osservazione, che mi pare pertinente.
In generale, quando si parla di famiglie monoparentali, si fa riferimento all’esito di separazioni o divorzi. Oggi, poi, all’ordine del giorno, sono le questioni relative all’omogenitorialità. Si tratta di temi importanti e non ne nego l’attualità e l’interesse: anzi, a più riprese mi sono espressa pubblicamente a favore di una decisa laicizzazione del nostro ordinamento giuridico.  Ma è vero che la situazione particolare in cui si trovano donne rimaste sole non per una scelta, ma per un evento imprevisto e prematuro, ha delle caratteristiche tutte sue.
Faccio presente che (dati del 2005, in Rete non ho trovato altro) in Italia vivono cinque milioni di persone vedove, con una proporzione di cinque vedove per ogni vedovo. Non è un numero piccolo. Dal punto di vista fiscale, siamo soggette ad una vera e propria “tassa sulla vedovanza”, per effetto del comma 41 dell’art. 1 della legge 335/1995 (Dini). Non entro nei dettagli tecnici, mi limito alle conseguenze. Quando uno dei coniugi muore, le spese del nucleo familiare, soprattutto in presenza di figli minori o comunque non ancora autosufficienti, non diminuiscono affatto: il mutuo o l’affitto vanno pagati, le bollette restano quelle, le spese per i figli sono sempre impegnative, etc etc. Ma il reddito sì, diminuisce in modo significativo, e in linea generale chi viene penalizzato di più dal punto di vista fiscale per effetto del divieto di cumulo fra reddito e pensione ai superstiti è proprio il lavoro femminile: di fatto accade che una vedova che lavori percepisca complessivamente di meno rispetto ad una vedova che non abbia mai lavorato (vedi ad esempio qui http://www.espertorisponde.ilsole24ore.com/problema-settimana/abolizione-cumulo-non-riguarda-reversibilita-coniuge:20081012.php e naturalmente qui  http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemdir=6189).

La difficoltà nelle quali si incorre quando ci si ritrova in una situazione di per sé molto complicata sono ben esemplificate in questa lettera http://www.adiantum.it/public/673-se-la-famiglia-diventa-vedovile,-l-indigenza-%C3%A8-la-norma—di-sandra-sgarroni-.asp
Per quanto mi riguarda, inoltre, in sede di liquidazione del 730 mi ritrovo a pagare delle cifre esagerate (a novembre per pagare l’ acconto Irpef mi verranno trattenuti tre quarti dello stipendio, per dire; nel 2011, visto che il conguaglio riguardava due annualità, mi sono ritrovata a pagare qualcosa come 7000 euro di tasse, una spesa che non avevo assolutamente previsto, data la mia perfetta ignoranza in materia: e non sono mica una capitalista, sono un’insegnante di liceo. mentre mio marito era solo un impiegato! E’ stato veramente traumatico scoprire che lo Stato italiano fa cassa sulla pelle delle vedove e degli orfani!).
Questo è solo un piccolo assaggio dell’aspetto economico della questione, ancora più difficile da trattare oggi vista la generale situazione di crisi: in ogni caso la categoria alla quale mi riferisco è chiaramente a rischio povertà. Ma non si tratta dell’unico problema. La verità è che, in caso di vedovanza, mutano le caratteristiche dei rapporti sociali, la fisionomia delle reti amicali o parentali di riferimento, la percezione della propria identità, il ruolo e la responsabilità nei confronti dei figli: e per questi ultimi il disagio è comunque grande e si ripercuote sulle relazioni con gli altri, i risultati scolastici etc etc. Insomma, l’effetto del trauma non è solo psicologico ma comporta una ridefinizione complessiva della propria collocazione nell’ambito sociale di appartenenza. E nessuno ne parla, a parte qualche associazione di matrice cattolica che lo fa, ovviamente, in una prospettiva religiosa (e talvolta ideologica, contrapponendo le “famiglie vedovili” ad altre tipologie, diciamo così, “irregolari” rispetto all’etica cattolica).
Vedova: io odio perfino la parola. Se la pronuncio, mi vengono in mente vecchiette curve e tristi, vestite a lutto, che passano i loro pomeriggi al cimitero o in tetra solitudine in appartamenti bui, colmi di ricordi polverosi. O magari in Chiesa, a biascicare giaculatorie con il rosario in mano.
Ho l’impressione che molti facciano la medesima associazione. In realtà la condizione vedovile, specialmente quella di persone ancora giovani e attive, con figli piccoli o adolescenti, è ben diversa: e purtroppo, oltre che fare i conti con il dolore e il lutto, deve anche fronteggiare le difficoltà e gli ostacoli frapposti da una burocrazia ottusa e miope e da una politica in genere forte con i deboli e debolissima con i forti (si pensi ad esempio all’incapacità di imporre un contributo di solidarietà alle cosiddette “pensioni d’oro”, in nome di “diritti acquisiti” che sono intoccabili). Senza contare che una donna rimasta sola sconta comunque tutte le difficoltà e i pregiudizi che accompagnano la condizione femminile, in modo particolare nel nostro ipocrita e arretrato paese.
Sono convinta che di storie da raccontare, anche più traumatiche e difficili della mia, ce ne sono tante. Servirà a poco, ma questo blog è qui, fra l’altro, anche per ascoltare, visto che pochi lo fanno.

 

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