A che serve la politica?

Domanda oziosa, direte voi. Il fatto è che la parola “politica” è una di quei termini dei quali, apparentemente, tutti pensano di sapere tutto, ma il cui significato è sfuggente e, per di più, incrostato di storia, storia millenaria. Già: ma a che serve la storia? E, soprattutto, chi ha del tempo da perdere per studiarla?

Premesso questo, diciamo che trovo nauseante la metamorfosi in chiave populistica e demagogica (aggettivi non esattamente sinonimi) della pratica e della comunicazione politiche (un peccato che, sia detto chiaramente, non è solo della Premiata Ditta Casaleggio, Grillo & C, ma di tutti i contendenti presenti nell’arengo politico, sinistra-destra-centro, con minore o maggiore efficacia manipolativa del pubblico di riferimento).

Prego notare che mi sto sforzando di scrivere in modo volutamente “difficile” (e già, altrimenti perché utilizzare il desueto “arengo”?). E’ ben vero che oggi per sembrare “difficili” e “intellettuali” basta avere ed applicare le competenze essenziali nell’uso corretto della grammatica, ortografia, sintassi, lessico: quindi, persino lo sforzo di evitare ripetizioni, strafalcioni e anacoluti può essere tacciato di insopportabile snobismo e scarsa sensibilità democratica, considerato il brodo comunicativo nel quale giornalmente ci immergiamo frequentando i social network, luoghi chiassosi in cui ognuno si sente in diritto di sparare la propria incontrovertibile e inossidabile opinione in un cacofonico intreccio di voci urlate che, di fatto, rende estremamente difficoltosa ogni attività di disponibile e attento ascolto degli altri possibili interlocutori.

Ma, va detto, esiste una demagogia più strisciante e insidiosa di quella veicolata dal convincimento “vox populi, vox Dei” (ovvero, secondo parodia, “siamo la gente, il potere ci temono”). Perché l’idiozia collettiva sparata a tutte maiuscole, con annesso uso futuristico di segni di interpunzione (in primo luogo mazzolini di punti esclamativi disseminati random e dirompente inflazione di puntini di sospensione)  nonché  interpretazione creativa della lingua italiana, è relativamente facile da individuare e demistificare. Ma è assai più complicato smascherare l’inganno laddove esso si celi dietro argomentazioni tecniche, uso e abuso di dati ufficiali e ufficiosi, esibizione di grafici, statistiche e percentuali: i numeri, si sa, su una platea genericamente complessata dalla consapevolezza della propria insipienza scientifica, fanno sempre una certa impressione, se non altro perché, come si dice, “la matematica non è un’opinione” e la pretesa oggettività del dato sembra esimere da ogni sforzo interpretativo. Due + due fa sempre quattro: o no?

Fra le tante esortazioni delle quali l’accigliata Europa ci ha fatto oggetto nel corso degli anni, spiccano per chi abbia un po’ di residuale memoria i numeri riferiti alla scuola, utilizzati per giustificare l’energica cura dimagrante alla quale il nostro sistema scolastico è stato impietosamente sottoposto. Rammento di averne parlato più di una volta, e troverete le tracce della mia perplessità nell’archivio che ospita l’altra vita di Floria:  per esempio in un post noiosissimo (quasi più di questo) che intitolavo, pensosamente, “Questioni di Bilancio“, oppure in un altro, forse più appassionato e arrabbiato, sebbene se la prendesse, ancora una volta, con l’uso distorto ( bipartisan) del dato statistico: e infatti si intitolava, non a caso, “Quando si gioca con i numeri“.

Ebbene, contrordine, compagni! Oggi l’Europa ci dice che abbiamo esagerato. Troppi tagli: del personale (ma non eravamo pletorici e incompetentii rispetto alla media UE?), degli stipendi (ma  questa voce di spesa non era eccessiva?), e in generale degli investimenti in materia di istruzione (ma i risparmi non dovevano essere reinvestiti per migliorare il sistema?). Ho dato uno sguardo veloce allo studio originale (mai fidarsi delle generalizzazioni giornalistiche) ed effettivamente pare proprio che le nostre scelte politiche in materia di istruzione siano state impietose. Suppongo tuttavia che la crisi economica c’entri fino a un certo punto:  se non altro perché i provvedimenti in materia di istruzione, compresi i famigerati tagli lineari, sono state giustificati non con la necessità di fare economia, ma con il pretesto di migliorare e razionalizzare il sistema e di ridurre il gap che ci separava dall’Europa, sempre lei. Insomma, le motivazioni erano presentate in chiave tecnica. Noi, che nella scuola lavoriamo, sapevamo perfettamente che non era così, che in realtà si voleva solo ed esclusivamente fare cassa sulla pelle di alunni e insegnanti: ma siccome i docenti sono stati sistematicamente accusati di resistenza corporativa al cambiamento e delegittimati con pervicace ostinazione, le nostre obiezioni non sembravano credibili. Nemmeno a molti cari amici progressisti e illuminati, va detto: perché è proprio su questo genere di persone, così compiaciute del loro impegno e delle loro buone letture, che la retorica tecnocratica ha avuto maggior presa.

Va da sé, il sistema si è impoverito ed immiserito, fatto che difficilmente potrà essere contestato: alle antiche magagne se ne sono aggiunte delle nuove, e sbrogliare la matassa sarà lungo, complesso e doloroso. Specialmente se nessuno ha idea di quale sia la direzione da intraprendere: né i tecnici (e i loro fan) che si baloccano con i numeri ma che non hanno ancora imparato a distinguere “misurazione” da “valutazione” (e conseguente scelta responsabile e motivata: a proposito, non sarà mica questa la funzione della politica, ovvero quella di compiere scelte responsabili e coraggiose allo scopo di migliorare la condizione dei cittadini?), né gli arrabbiati per vocazione e professione.

Perché non c’è nulla di peggiore della commistione fra il pessimo umore della folla e la mediocrità dei saccenti: e di questo intreccio fra ignoranza e mezza-cultura abbiano visto all’opera negli anni un numero imprecisato di epifenomeni, con i risultati che stiamo sperimentando. La complessità delle questioni sul tappeto richiederebbe l’equilibrio difficile fra l’umiltà dello studio e il coraggio della visione: niente a che vedere con quello che stiamo sperimentando, ormai da troppo tempo.

 

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