Basta compiti (e no alla conoscenza come penitenza)

Sono docente di liceo e in questi ultimi trent’anni ho prevalentemente insegnato al triennio. Do la lezione per casa? Sì, sempre assegnata: spesso modulandola e concordandola con i miei allievi. Ma negli ultimi tempi mi son resa conto di un fatto allarmante: molti ragazzi sembrano non essere più in grado di affrontare i compiti in autonomia. Perché? Mi sono convinta che il motivo non risiede nel fatto che nei gradi precedenti di scuola vengano loro assegnati pochi compiti. Forse, al contrario, gliene vengono assegnati troppi.

Ora, non ho la pretesa che il caso personale faccia statistica, ma  può essere utile che io racconti la mia storia. Figlia di maestra elementare, ho respirato scuola sin dalla nascita. Posso dirlo con certezza: mia madre, e molte sue colleghe (faccio riferimento ad un periodo di tempo che va, all’incirca, dagli anni Cinquanta ai Novanta), si guardavano bene da oberare i ragazzini di compiti casalinghi. L’ordine era: “Devi fare da solo, così io, insegnante, posso vedere dove sbagli, e correggerti”. Anzi, in certo modo, i genitori troppo apprensivi che si sostituivano ai figli (e all’insegnante),  non erano visti di buon occhio, e invitati a farsi da parte.

Va da sé che chi proveniva da famiglie provviste di un buon capitale culturale di partenza era avvantaggiato: ma non tanto perché veniva aiutato a fare la lezione da mamme più preparate, quanto perché naturalmente respirava un’aria, in casa, più favorevole alla scuola (più libri, più stimoli, maggiore correttezza nell’uso quotidiano della lingua italiana etc etc). Magari non doveva andare a lavorare nei campi subito dopo essere tornato da scuola, come pure accadeva abbastanza spesso, persino qui in Toscana. Ma se la scuola di allora solo raramente riusciva a funzionare da “ascensore sociale”, come si dice, c’è da chiedersi se quella di oggi comunque ci riesca davvero: argomento che forse approfondirò in altra occasione.

Quando dalla maestra unica si è passati al team di tre insegnanti su due classi (il cosiddetto “modulo”), va detto che molti  docenti non erano affatto abituati  a lavorare in sinergia: ognuno procedeva per conto proprio, scarsa e solo formale la programmazione, e la lezione si moltiplicava per tre (o per quattro, o per cinque, se si contavano anche il docente di religione e quello di inglese).  Parlo per esperienza diretta. La scuola elementare della mia prima figlia (iniziata nel 1994) è stata un incubo. Mia madre, allora già in pensione, era allibita.  Non potevo fare a meno di chiedermi sconsolata: “ma se io devo fare a casa il lavoro delle maestre, cioè spiegare, correggere etc etc, posso aspirare anche a metà del loro stipendio?” I complessi di colpa mi divoravano: mia figlia era riottosa e sempre più annoiata. Io non riuscivo a starle dietro, perché, dopo che avevo speso tutte le mie energie con i figli degli altri e con il secondogenito allora piccolissimo, proprio non ce la facevo a sopportare il peso di esercizi su esercizi che,  fra l’altro, didatticamente mi convincevano poco. I risultati erano pessimi. Liti continue. L’autostima di mia figlia in caduta libera. Ci sono voluti anni, senza scherzi, perché io e lei ci riprendessimo.

Con il secondogenito le cose sono andate decisamente meglio. Tempo pieno, pochi compiti e mirati a fissare in modo autonomo le molte cose apprese a scuola. Questione di fortuna, forse. O di maggior pratica delle insegnanti nell’arte della programmazione. O semplicemente di buon senso. O di tutte queste cose insieme.

Grazie a Dio, comunque, ne siamo fuori. Ormai libera da condizionamenti personali, osservo tuttavia che la tendenza generale, oggi, sembra essere quella di imporre moltissimi compiti da fare e di pretendere la collaborazione fattiva dei genitori nel loro svolgimento. Chi non può, o si rifiuta, viene accusato di disinteresse o di egoismo. La mistica dello studio come sacrificio sta ritornando in auge. Se i compiti non venissero assegnati, affermano alcuni, i bambini sarebbero abbandonati alla nefasta influenza di televisione, internet e playstation. E comunque: tutta colpa del Sessantotto e della sua pedagogia permissiva e deresponsabilizzzante (questa viene sempre bene, anche se ormai il ’68 è trascorso da quasi cinquant’anni).

Eh sì, vabbè. A parte la colpevolizzazione a prescindere dei videogiochi (che si radica in una mancata conoscenza dei generi, delle tipologie e delle implicazioni espressive e comunicative dei videogame medesimi), quello che contesto è proprio l’utilità di queste imposizioni. Se i bambini non sono in grado (e spesso non lo sono) di portare a termine da soli e in tempi ragionevoli quello che è loro assegnato e hanno sistematicamente bisogno di un adulto accanto, quale sarebbe il vantaggio in termini di apprendimento, a parte inculcare loro l’idea che studiare sia una fatica improba? Non si sviluppa l’autonomia, non si sviluppa la fiducia in se stessi, non si sviluppa la capacità di personale riflessione, non si sviluppa nemmeno la propensione all’impegno e al lavoro individuale. Tutto diventa pesantissimo, demotivante, opprimente. Azzardo un’ipotesi: l’insistenza esasperata sulle competenze (misurabili e certificate)  non può non mortificare la valorizzazione delle capacità e dell’individuale creatività. I ragazzini non sono macchine da test: nemmeno se si tratta dei test INVALSI.

Imparare è bellissimo, Siamo animali “conoscenti”. Certo, implica sforzo, fatica, impegno. Ma non dolore. Non sofferenza. Quando mi allenavo cinque volte a settimana per essere pronta alla partita di volley del sabato, sudavo moltissimo e i muscoli mi facevano male: ma non soffrivo. Non ero triste. E l’allenamento non era una penitenza. Era una sfida. Con lo studio dovrebbe essere lo stesso. Quali sono i significati originari di questa parola, in latino? Cura, diligenza, ma anche passione, meraviglia, amore. Il libro, in ogni caso, non è un cilicio.

Ma a parte questa filosofia spicciola, la verità vera che sfugge a quei docenti che fanno dei compiti a casa nella scuola dell’obbligo una specie di feticcio, è questa: se i ragazzini non sono messi in condizione di fare da sé, non impareranno certo dopo, quando le conoscenze dei genitori saranno ormai inadeguate per seguirli nel loro percorso di studio. Nel momento in cui resteranno, per forza, soli davanti ai loro libri, non saranno capaci di tirar fuori un ragno dal buco, perché non l’avranno mai fatto prima. I quaderni di casa erano perfetti, ma non erano, veramente, i loro quaderni.  Forse è proprio questa la ragione per la quale tanti miei alunni arrivano al liceo senza un metodo, senza un vero interesse, senza un’autentica motivazione se non quella di vincere una specie di gara di voti, e, infine, senza la capacità di accettare la frustrazione, la ricchezza che deriva dall’errore e dalla possibilità di capire, da soli, come correggerlo. È mancata loro quella gradualità nell’impegno personale che un tempo c’era e che oggi sembra tramontata: ed è una situazione paradossale, perché la vecchia scuola, quella dalla quale sono uscita io, è sempre stata accusata di nozionismo, ma oggi, a dispetto delle tante rivoluzioni pedagogiche annunciate e messe malamente in atto, la scuola delle competenze, così come molti la interpretano, sembra più fredda, sterile, noiosa e faticosa di quella di cinquant’anni fa.

Tornerò sul tema, perché molti ci sarebbe da dire, per esempio sulle diseguaglianze che questo modello approfondisce invece di sanare.

Per il momento, segnalo il gruppo facebook Basta compiti, e l’ omonima petizione su Change.org.

 

 

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