De Amicis non abita più qui

L’ormai famoso (o famigerato) video “Porta a scuola i tuoi sogni”, promosso dal MIUR, ha già procurato una marea di commenti e ormai il fatto non è più così fresco. In questo post, tuttavia, non entrerò se non marginalmente nel merito del messaggio che si voleva veicolare ma cercherò di comprendere perché questa operazione comunicativa non solo non ha funzionato, ma, fatalmente, non poteva funzionare. E non c’entra il fatto che il video sia stato girato in una scuola privata, per di più tedesca, di Milano: la location (per quanto  infelice, ammettiamolo) è l’ultimo dei problemi.

Riccardo Luna ha scritto un articolato intervento sul Post, difendendo l’operato di quanti hanno ideato il video e vi hanno partecipato (lo stesso Riccardo Luna, Paolo Iabichino e il testimonial d’eccezione scelto per l’operazione, Roberto Vecchioni). Qui si impone la prima osservazione, abbastanza elementare, direi: se il messaggio (ovvero l’edificante invito ad amare, nonostante tutto, lo studio) non è passato o è stato generalmente frainteso, vuol dire che la comunicazione, per quanto studiata a tavolino da esperti del settore, era impostata in modo sbagliato. Meglio ammetterlo, piuttosto che gridare alla strumentalizzazione. Se nessuno ti capisce, forse non sono gli altri ad essere duri di compredonio, ma sei tu che non sei stato chiaro (cosa che i bravi professori, pur non avendo studiato le tecniche di marketing, sanno benissimo, per averlo sperimentato nel loro quotidiano lavoro: se tutti prendono tre, forse bisogna aggiustare il tiro, no?).  Diciamo che i responsabili erano stati autorevolmente avvertiti in tempi non sospetti: questo articolo di Giovanna Cosenza, apparso il 9 ottobre sul Fatto Quotidiano e sul suo blog Dis.amb.iguando ne è la prova evidente. Giovanna Cosenza concludeva così la sua accurata analisi:

“Ma la pubblicità vende sogni, si sa, e lo spot si rivolge più agli adulti, ai genitori e agli insegnanti che ai ragazzi, mostrando loro una scuola dei sogni. Se non fosse che, quando un sogno è troppo lontano dalla realtà, non si riesce nemmeno a sognarlo.

Cosa potevano fare i pubblicitari? Dato il committente e la situazione italiana, forse nient’altro: era una missione quasi impossible. Che poteva fare il Miur? Evitare lo spot e agire a favore della scuola (il come è tutto da discutere, ma in altra sede). Non sempre si deve passare da uno spot, anzi: in certi casi è meglio lasciar perdere”.

L’osservazione mi trova del tutto d’accordo. C’è poco da fare: la costruzione retorica di una realtà idealizzata, quando i fatti stridono platealmente con la narrazione che si propone, è condannata in partenza.  

Scrive adesso Riccardo Luna: Porta a scuola i tuoi sogni” non è uno spot sulla scuola italiana: è un video sullo studio, sull’importanza dello studio. È un video che prova a trasmettere un unico, forte messaggio: anche se la nostra scuola non va, anche se non funziona, anche se in qualche caso cade letteralmente a pezzi, ricordiamoci che studiare è l’unica cosa che ci salva. L’unica che ci assicura un futuro possibile. Come cittadini e come paese”. Mi verrebbe da rispondere: Ma va? Guarda te, come insegnante e come genitore non lo sapevo: avevo proprio bisogno che me lo venissero a dire Vecchioni, Luna e Iabichino … Il punto è che nella apologia di Luna c’è un’altra cosa che non va e che rende la toppa peggiore del buco: quella congiunzione  ripetuta enfaticamente in anafora, “anche se”. Consideriamo il committente del video (non chiamiamolo “spot”, sebbene ne avesse tutta l’aria e ne utilizzasse le tipiche convenzioni narrative : Luna sottolinea, e ci sarebbe da discutere anche su questo, “non è uno spot, non stiamo vendendo saponette: è un video, una clip che ha un messaggio sociale”): il MIUR. Visto che “la scuola non va, non funziona e in qualche caso cade letteralmente a pezzi”, forse il messaggio non doveva partire dal Ministro verso studenti e docenti, ma da questi ultimi verso il Ministro (che, ricordiamolo, si è assunto una precisa responsabilità politica,  anche con le proposte immediatamente successive alla diffusione del video), in modo perfettamente e simmetricamente rovesciato. Qualcosa del genere: “Anche se noi ci diamo da fare, anche se amiamo lo studio, anche se vorremmo condividere questo amore, questo sogno, la scuola non va, non funziona, cade letteralmente a pezzi, e i nostri sogni si trasformano in incubi”.

In effetti, è quello che è accaduto, visto che in molti abbiamo utilizzato le dinamiche proprie della Rete per far passare esattamente questo messaggio. E qui c’è un corollario all’intera storia che mi ha visto, insieme con altri colleghi, umile protagonista.  Nei commenti al post su Dis.amb.iguando citato poche righe sopra, è intervenuto Paolo Iabichino che, alle argomentazioni critiche di Giovanna Cosenza, così rispondeva (grassetti miei): “Capisco perfettamente le critiche che possono essere mosse dalla classe docente e non me la sento di biasimarle. Vero è che questa iniziativa si rivolge prevalentemente agli studenti ed è a loro che viene raccontata una scuola incerta, tra passato e futuro, tra vecchio e nuovo, per vincere resistenze e disamoramenti. A loro si chiede di portare a scuola i sogni, nonostante tutto. Ed è soprattutto a loro che è dedicata una piattaforma digitale di ascolto con cui il filmato si chiude e che sarà attiva nelle prossime ore. In questo senso, scusami, non sono d’accordo quando scrivi che sarebbe stato “meglio lasciar perdere”, ché questo video – bello o brutto che sia – serve anche come “banner” per aprire un canale di ascolto.

Sapevo che il tema non era semplice da mettere nero su bianco, consapevole che una certa estetica tipica della pubblicità purtroppo generi così tante resistenze. E quindi anche un’iniziativa mossa da buone intenzioni viene letta solo attraverso la lente della diffidenza. Che poi è la stessa lente che impedisce di decodificare la bontà di un messaggio che vorrebbe solo ricordare che scuola e studio vengono prima di qualsiasi altra scorciatoia. Sappiamo quanto ne hanno bisogno i ragazzi ed è a loro che è dedicato un Tumblr di ascolto.

Eh sì, Iabichino parla del famoso (da queste parti) Tumblr di Profumo, quello che mi è capitato di definire, non a caso, “la vetrinetta pubblicitaria del Ministro” e che si apre con queste parole, a firma dello stesso Profumo: “Da oggi parte la campagna #portaascuolaituoisogni. Immagini, testi, foto, citazioni e video: questo è uno spazio aperto a studenti, insegnanti e a tutto il personale, per raccontare le  suggestioni sulla scuola… Uno spazio per le idee e, perché no, per i sogni“. Peccato che il blog è stato aperto il 9 ottobre e il 20 è stato chiuso precipitosamente con una letterina, frettolosa, generica e, al solito, retorica quel tanto che basta, del medesimo Ministro, che ci ringrazia tutti e ci invita ad andare avanti. Che è successo? E’ successo che, da un certo momento in poi, gli interventi postati erano tutti “critici”, tanto per usare un eufemismo, e tutti vertevano esattamente sull’antitesi “sogni vs incubi” di cui parlavamo sopra. Inoltre, pur non potendo accedere alle statistiche di accesso, ipotizzo anche che il blog del Ministro non fosse così frequentato come si desiderava: e per di più la qualità degli utenti che lì capitavano e lasciavano un segno non era funzionale al messaggio che si voleva trasmettere. Quindi, meglio interrompere, piuttosto che ritrovarsi davanti alla sgradevole alternativa “censurare o no quello che sta arrivando?”. Insomma, detto fuori dai denti, il classico buco nell’acqua. Ma perché è successo? Perché oggi la comunicazione della scuola e sulla scuola si fa altrove, in modo spontaneo, diffuso e capillare, e nessuno sente il bisogno di un luogo dove il potente di turno porge graziosamente orecchio ai desideri e ai malumori dei sudditi: si fa sui social network, sui piccoli blog come il mio che sfruttano i meccanismi della cosiddetta “coda lunga” e del passaparola, si fa nei forum, nei gruppi di discussione, nelle singole caselle di posta elettronica. E se le cose stanno così, era ovvio che il gioco sfuggisse di mano, perché chi ha un minimo di pratica di Internet e conosce i meccanismi della comunicazione “dal basso” non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di mettere in rotta di collisione il video edulcorato del MIUR e il buonismo di facciata sottinteso all’intera operazione con le disastrose condizioni nelle quali ci troviamo a lavorare.

Riccardo Luna cerca di sfruttare quel che è successo per dimostrare che, insomma, in realtà le cose sono andate meglio di quel che sembra. A conclusione del suo post scrive: “E quella che si vede nelle immagini è una scuola da sognare […] Come costruirla? Come arrivarci? Intanto ascoltando chi a scuola ci vive: infatti il ministro ha aperto un blog dove nei giorni scorsi sono state pubblicate decine di lettere di insegnanti e studenti che hanno raccontato benissimo lo stato tragico di molte scuole italiane. Ma leggendo quelle lettere, se avrete tempo e voglia, emerge fra le righe qualcosa di più forte della sterile rabbia. L’amore per la scuola, l’amore per lo studio”.

Beh, no, caro Riccardo, non cambiare le carte in tavola. Lascia che te lo dica l’autrice di una di quelle lettere. Il blog del Ministro non era nato certo per diventare lo sfogatoio di noialtri insegnanti, come dimostrano le parole del tuo amico Iabichino citate sopra. Se lo è diventato, è successo contro le intenzioni di chi ha impostato la campagna (tant’è vero che è stata chiusa la possibilità di intervenire sul blog) e, se vogliamo essere chiari, dubito molto che il Ministro non sapesse in partenza quello che gli abbiamo scritto. In effetti credo che lo scopo vero di molti fra coloro che hanno scritto non fosse quello di ottenere una risposta dal Ministro (figurarsi), ma, molto più semplicemente, quello di contrastare una narrazione imprecisa e deamicisiana del ruolo del docente, di disinnescare la finalità sottilmente propagandistica del richiamo autorevole al “sogno” e alla “suggestione” e di raccontare non a Profumo (che lo sa benissimo, faremmo torto alla sua intelligenza se pensassimo il contrario) ma agli eventuali lettori del blog che cosa vuol dire, davvero, fare scuola oggi: ovvero cambiare segno ad un racconto diffuso che vuole gli insegnanti privilegiati, scarsamente produttivi e poco disposti al cambiamento (un racconto che in qualche modo giustificava coram populo la proposta di innalzare l’orario di insegnamento a 24 ore).  Ed è esattamente per questo motivo che nel post da me inviato al Tumblr (intitolato, si noti bene, “La scuola non ha bisogno di sogni e suggestioni, ma di politiche serie e condivise. E di ascolto”), l’ultimo ad essere pubblicato prima dell’intervento finale del Ministro, scrivevo: “Vorrei che  ci fossero risparmiati i facili show mediatici, gli spot genericamente retorici, le banalizzazioni giornalistiche, le facili demagogie, le scelte approssimative, gli errori grossolani”. 

Insomma, dire  lo studio sia un valore significa fare un’affermazione  talmente generica che per forza si deve essere d’accordo. Ma, ovviamente, il senso del messaggio è fatalmente condizionato dal contesto (possiamo condividere in linea generale il principio che “il lavoro rende liberi” ma certo è che la frase, scritta all’entrata di Auschwitz, assume una connotazione particolare, no?). Se il contesto nega di fatto il valore dello studio (a proposito, che ne dite dei professori che imparano dagli allievi? e allora questi ultimi che studiano a fare, se nascono già “imparati”, come si dice qui?) e lo rende difficile o, peggio, inutile e inefficace, squalificando coloro che ne dovrebbero essere gli strumenti, cioè gli insegnanti,  di che cosa stiamo parlando? Allora, che ognuno si assuma le sue responsabilità: i pubblicitari, i professori e, soprattuto, il Ministro.


“.

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3 risposte a De Amicis non abita più qui

  1. Giovanni Calì scrive:

    Estrapolo e critico solo una piccola parte di un post che per il resto, come sempre, coglie nel segno; e nel farlo andrò decisamente fuori tema, mi scuso per questo.

    Mi riferisco all’appunto riguardo alla tipica visione che si ha dell’insegnante medio, privilegiato e scansafatiche, inefficiente e inefficace nel proprio lavoro.

    Mi trovavo a parlare per l’appunto di un argomento del genere pochi giorni fa, con un’amica, e mi sono trovato in difficoltà a difendere la figura dell’insegnante, verso la quale pure nutro inevitabilmente un certo rispetto, nel momento in cui mi è stato fatto notare che di docenti da eliminare ce ne son davvero troppi.

    Metto in chiaro che parlo basandomi su aneddoti ed esperienze personali, quindi niente su cui avrebbe senso basarsi per un’analisi statistica seria della questione. Ma considerando che parliamo anche del modo in cui viene percepita la figura dell’educatore, trovo sia sensato basarsi anche su questo.

    Da una parte è vero che il didatta che vuole davvero fare il proprio lavoro e nonostante tutto magari ci riesce pure è bistrattato oltre misura. Ma è anche vero che di insegnanti che, per incapacità o per mancanza di passione, non sono all’altezza della loro posizione ce ne sono a manciate. E dovrebbero essere allontanati, istantaneamente, perché dannosi per i propri studenti, perché ostacoli alla possibilità di far lavorare nuove (o vecchie) leve più meritevoli, perché in ultima analisi estremamente nocivi per il sistema intero.

    Mi piacerebbe vedere il corpo insegnanti più unito nel tentare di liberarsi di determinati elementi; ho da sempre avuto la convinzione che insegnare sia un lavoro estremamente difficile e che richieda una capacità e passione che inevitabilmente non tutti hanno. E, meno inevitabilmente, un numero non trascurabile di persone che riescono (o sono riuscite) ad accedere alla professione quella capacità e quella passione per l’insegnamento non la conoscono.

    Da qui credo derivi l’astio che si ha comunemente. Perché, tolte le solite considerazioni sull’estate libera, le poche ore di lavoro in classe e quant’altro, che lasciano il tempo che trovano, chiunque sia stato studente ha visto in prima persona lavorare persone che non dovrebbero avere il privilegio di svolgere quel mestiere. E non ha visto nel resto degli insegnanti lo sdegno e la voglia di denunciare certi comportamenti che ci si aspetterebbe.

    Non mi riferisco necessariamente ai presenti, né quando parlo di incapacità, né quando parlo di mancata denuncia, quantomeno perché non ne so abbastanza da potermelo permettere. Ma l’impressione che sia necessaria una autocritica più rigorosa è forte; data la percezione media, temo che prima di poter sperare di ottenere rispetto sia necessario essere completamente lindi. Se, invece, questo sforzo per ripulirsi c’è ma non viene colto, c’è bisogno di essere più espliciti nel pubblicizzarlo, che è davvero un peccato che la considerazione che si ha verso i professori sia così diffusamente bassa.

    My two cents.

  2. floria1405 scrive:

    Caro Giovanni, che dire? Hai ragione. Fra gli insegnanti ce ne sono alcuni bravissimi, molti dignitosi, altri decisamente impresentabili: cosa che accade, peraltro, anche in molte altre categorie, ma per quanto riguarda gli insegnanti scatta inevitabilmente una sorta di meccanismo freudiano di transfert negativo. Ora, io faccio una semplice osservazione. Le mutate condizioni di lavoro inguaiano gli insegnanti più coscienziosi, mentre quelli pessimi resteranno pessimi per 18 o 24 ore, con dieci riunioni in più alla settimana, trentacinque alunni per classe e pacchi di test insulsi da correggere, e inoltre avranno anche un alibi in più. Tu dici che fra gli insegnanti ci dovrebbe essere, diciamo così, meno omertà, meno spirito corporativo. Giusto, ma dimmi tu, che cosa bisognerebbe fare? Ne ho conosciute troppe di classi pronte al mugugno contro il docente poco valido ma che non si sarebbero mai esposte apertamente e chiaramente. Meglio l’offesa gratuita su facebook che l’azione compatta per rivendicare il proprio diritto ad un insegnamento di qualità. E poteva anche accadere che le critiche più aspre si rivolgessero verso chi magari era più intransigente, nonostante la sua competenza, mentre il professore vagabondo che dà poco e pretende poco era tollerato perché faceva più comodo così, salvo abbandonarsi al pettegolezzo fine a se stesso. Allora io credo che la strada non possa essere né la delazione del collega che si sente più bravo, né la protesta inefficace del singolo alunno o del gruppetto che magari si trova in minoranza rispetto ai compagni più pavidi o più opportunisti. Immagino che se ne esca solo introducendo un meccanismo serio e attento di valutazione dei docenti, al quale corrisponda una loro effettiva valorizzazione. E. ovviamente, le condizioni di lavoro devono essere migliorate, in modo da consentire a tutti di dare il meglio di sé. Si tratta di scelte politiche delle quali bisogna assumersi piena responsabilità, nell’ambito di una visione complessiva e motivata della funzione della scuola. Rispetto a questo, personalmente non attuerei nessuna difesa corporativa e, anzi, reputo che i sindacati abbiano commesso molti errori tutelando anche chi non lo meritava affatto.

  3. Albamarina scrive:

    “Buonismo di facciata, disastrose condizioni di lavoro”.
    Troppo ampia la forbice per far incontrare vetrine infiocchettate per non docenti, come giustamente sottolinei, e lavoratori della scuola. La battagllia contro i luoghi comuni non si vince, soprattutto quando un ministero, più o meno volontariamente, li nutre…

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