Dylan reloaded

 

Dopo aver letto, fra le altre cose, quest’articolo imbarazzante su Dylan ed essermi comunque consolata grazie all’ottimo Paolo Vites, ho recuperato, aggiornandolo, un mio vecchio pezzo del 2008, già pubblicato su Maggie’s farm, intitolato “Dylan il bastardo”.

Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: io sto dalla parte di Dylan, senza se e senza ma. E questo, nonostante la consapevolezza che Dylan non sia più quello di una volta, che le sue scelte, sia musicali che di business (e che business! quello commercialmente più triviale, dalla pubblicità dei reggiseni alla vendita in confezione deluxe di materiale vecchio di anni), possano essere addirittura sconfortanti, che la sua presenza (o dovremmo dire “assenza”?) scenica e la sua voce gracchiante nei concerti siano talvolta imbarazzanti, che la sua arroganza nei confronti dei fan sia sicuramente urtante (ammettiamolo: ci vuole una buona dose di masochismo per continuare a venerarlo come fanno alcuni, quasi fosse una sorta di dio della musica, di ispirato redentore, di vittima sacrificale sull’altare della nostra mediocrità).

Che cosa penso davvero? che Dylan sia un grandissimo bastardo. e prego notare che l’aggettivo “grandissimo” non ha nessuna connotazione ironica o malevola, ma sta ad indicare il mio incrollabile apprezzamento. Dylan è un grandissimo bastardo perché è un maledetto genio, suo malgrado e malgrado i fan, i giornalisti, gli interpreti, gli esegeti, i critici, i detrattori, gli avversari e chiunque altro faccia parte, per questa o quella ragione, del grande circo che gli ruota attorno.
E credo anche che la sua bastardaggine sia sostanzialmente onesta. A parte le primissime fasi della sua carriera e la breve ubriacatura evengelica alla fine degli anni Settanta. Dylan ha mai dichiarato di voler essere guida della masse e profeta delle note? Ha mai finto di essere quello che non è?

Ognuno ha il suo Dylan prediletto. Il mio è quello degli anni Settanta, della Rolling Thunder Revue, di Blood on the tracks, di Hard Rain (il primo album live che ho acquistato a quindici anni), di Desire, di Street Legal. E’ un Dylan che, evidentemente, non esiste più (d’altra parte non esiste più nemmeno la me stessa adolescente di allora, se non nelle improbabili pieghe di una nostalgia pericolosa e patetica). Quel personaggio uno se lo va a ricercare nei video di YouTube, nei vecchi vinili, nei poster sbiaditi e sbrindellati che hanno resistito a traslochi e pulizie primaverili varie. E allora è concesso pure qualche (discreto) sospiro di rimpianto.

Ma se il Dylan più che settantenne di oggi non è più il Dylan trentacinquenne di allora (e nemmeno quello venticinquenne del ’66 o lo sbarbatello folk dei primi anni Sessanta), dobbiamo fargliene una colpa? C’è chi dice: “E va bene. Allora si ritiri, si goda la pensione, si curi la voce, se non l’ha ancora fatto smetta di fumare, non stravolga più i suoi cavalli di battaglia, i suoi pezzi storici, ci lasci al nostro sogno, al nostro mito … ci permetta di continuare ad illuderci, ad adorarlo estasiati, ad omaggiare il suo monumento”.

E’ esattamente quello che Dylan non può fare, pena non essere più Dylan: perchè alla base del suo personaggio e del fascino che esercita c’è proprio il rifiuto, o meglio l’impossibilità, di lasciarsi inquadrare, incasellare in un ruolo, in uno stereotipo … figurarsi se può permettere ai fan di dirgli quello che deve (può) o non deve (non può) fare. Sempre “mascherato” e sempre “anonimo”, sempre “bugiardo” e traditore e ladro e inafferrabile e indefinibile: sempre, invariabilmente, Dylan.

Ovvero un cantante, e un autore (e non è escluso che la sua creatività si manifesti oggi proprio in ogni diversa e straniante performance dei pezzi che il suo pubblico tende a considerare intoccabili): è il suo mestiere, il suo destino, e alla fine it’s doom alone that counts. E’ arrivato a un punto della vita in cui gli è perfettamente indifferente se davanti ha cento o centomila persone. E’ Dylan, non ha più bisogno di dimostrare alcunché, immagino non abbia problemi economici che lo spingano, una data dopo l’altra, in giro per il mondo. Semplicemente questo è quello che sa fare, quello che vuole fare. Andare o non andare ad ascoltarlo, fischiarlo o applaudirlo, beh, quella è responsabilità nostra, è qualcosa che riguarda solo noi, mica ci costringe a pagare il biglietto.

D’altra parte non era lui che diceva, in tempi non sospetti (1965), “There’s no success like failure and the failure is not success at all”? Il suo successo è il suo fallimento e il fallimento non è mai un successo, e allora di che cosa possiamo lamentarci se Dylan oggi considera successo (il pubblico che lo esalta) e fallimento (il pubblico che impreca deluso) con la stessa olimpica indifferenza? Dopo tutto quello che si è lasciato alle spalle, poi.

E poi, è davvero così “mascherato” e incomprensibile, o il suo “egotismo”, il suo giocare con parvenze di identità è in realtà perfettamente trasparente e, alla fine, sincero? In definitiva chi è più patetico? Chi a sessanta, settant’ anni continua con l’imitazione pedissequa del se stesso ventenne, saltellando e sudando sul palco in un’involontaria parodia delle pretese trasgressioni giovanili, o il Dylan artritico, con la sua inconfondibile voce nasale che si allunga stridula sulle sillabe finali dei versi, che sembra da un lato sfottere il pubblico, dall’altro se stesso, il suo monumento, i panni che per forza, fra un’esecrazione e una celebrazione, qualcun altro vule cucirgli addosso?

A Barolo non c’ero, perché per me era troppo complicata la logistica. Ma se Dylan tornerà in Italia in luoghi più accessibili, andrò senz’altro a vederlo. E comprerò “Tempest”, il nuovo album in uscita l’11 settembre. Per studiare una volta di più  la fenomenologia ambigua e sorprendente di questo omino smilzo con il cappellone da cowboy, di questo istrione sfuggente e provocatorio in primo luogo nei confronti di se stesso. Sarò sempre ben disposta a farmi prendere in giro una volta di più, perché questa è la regola del gioco che Dylan, piaccia o meno, ti impone (o preferireste immaginarlo pensionato, in pantofole, un drink in mano, votato per il resto della vita a lucidare il Pulitzer, in attesa del Nobel che tarda a venire?): un mito che si diverte preversamente a desacralizzarsi e, in un cerchio perfetto, proprio questa desacralizzazione, questa bestemmia, si trasforma nuovamente in mito.

 


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