Femminicidio, quant’è comodo pensare che non esista

Rispetto al fenomeno del femicidio/femminicidio, pare che sia in atto un tentativo di ridimensionamento se non addirittura di negazione del fenomeno. Ne parla dettagliatamente Loredana Lipperini, in un’attenta e documentata analisi dei numeri che da alcuni vengono addotti per giustificare l’idea che il femminicidio sia soltanto una bolla mediatica, alimentata dall’isterismo dei giornali e da un pessimo e distorto uso dei dati statistici. Al termine del suo puntuale smontaggio delle affermazioni negazioniste, la Lipperini afferma:

se abbiamo davanti un’incidenza percentuale che ci dice che, a differenza di altri delitti, il femminicidio esiste e non cala come gli altri crimini, se abbiamo davanti un’assenza di dati e di risorse, si dovrebbe concludere – e sarebbe logico farlo – che abbiamo un problema. Il drappello di fact-checker, invece, conclude che NON lo abbiamo.

Difficile non condividere. A questo punto, la domanda che si impone è: perché?

Perché tutto questo spreco di energia intellettuale per dimostrare che l’enfasi sul fenomeno non sarebbe giustificata? 

Leggendo gli interventi di Patruno (Noisefromamerika), Tonello (il Fatto),  De Luca (il Post), Quit-the-doner, citati dalla Lipperini, mi colpisce il loro sostanziale accordo sull’interpretazione linguistica della parola “femminicidio”. In sintesi, secondo gli autori, il termine sarebbe una pura invenzione che rimanda ad un fenomeno inesistente. Le donne vengono uccise non in quanto donne (a meno che non si tratti delle vittime di qualche serial killer in stile Criminal Minds) ma nel contesto di delitti passionali, relazioni disfunzionali, violenza domestica (ovvero una specificazione della propensione alla violenza purtroppo presente nell’essere umano a prescindere dal sesso). Oppure il femminicidio può essere definito come un fenomeno “endemico”, e non certo un’emergenza.

Tonello:

Infine, una nota sul linguaggio. Spesso si usa il termine “femminicidio” per chiamare le aggressioni contro le le donne anche quando, fortunatamente, non hanno conseguenze mortaliper esempio uno sfregio con l’acido. Ora, un omicidio è un omicidio, e “lesioni gravissime” sono lesioni gravissime. Dalla tomba non si esce, dall’ospedale sì. Per di più, il “femminicidio” sarebbe un’espressione impropria anche in caso di morte: a imitazione di “genocidio” si crea una nuova parola che crea una nuova realtà: le donne uccise “in quanto donne”, come gli ebrei, sterminati “in quanto ebrei”.

Ma il paragone non regge: gli ebrei Samuel, Israel, Ruth o Esther venivano mandati dai nazisti nelle camere a gas per il solo fatto di essere di religione ebraica, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Le donne uccise da ex partner non vengono uccise “in quanto esseri umani di sesso femminile” bensì esattamente per la ragione opposta: per essere quella donna che ha rifiutato quell’uomo. Michela Fioretti è stata uccisa dall’ex marito Guglielmo Berettini, che non accettava di essere stato lasciato. Berettini non ha sparato sei colpi di pistola contro la prima donna che ha visto per strada: ha ucciso Michela perché era Michela che l’aveva lasciato. Non c’è bisogno di creare una nuova categoria di reati, di inventarsi nuove pene: per l’omicidio c’è già l’ergastolo. Chiamiamo le cose con il loro nome, puniamo i violenti ma guardiamo in faccia la realtà e non creiamo il panico quando non ce n’è bisogno.

 

Patruno:

L’omicidio di una donna, tranne i casi di violenza sessuale che si tramutano in omicidio o il caso della vittima che si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato, come per esempio una cassiera di banca che viene uccisa durante una rapina, è prevalentemente una sottospecie di violenza domestica o passionale, dato che le donne sono generalmente estrenee alle guerre tra bande criminali. […]

Certo, si potrebbero e dovrebbero perseguire con maggior forza i fenomeni di stalking e la violenza domestica in generale, ma, come al solito in Italia, è una questione di corretto ed efficace uso delle scarse risorse, nè avrebbe molto senso invocare un’inasprimento delle pene, perchè i “femminicidi” come tutti i delitti passionali, sono spesso delitti di impulso o per i quali le conseguenze penali non sono la principale remora o preoccupazione.

 

Quit the doner: 

Il termine femminicidio inteso nella sua accezione più oltranzista come “omicidio di una donna in quanto donna” è una palese assurdità logica, sociale e linguistica.

È talmente evidente che sarebbe anche superfluo dirlo se questo mito non occupasse buona parte del dibattito mediatico. Le donne vengono uccise nei contesti familiari o dai partner perché sono parte di relazioni che finiscono o per gravi tensioni emotive di vario tipo.

Con buona pace delle blogger e delle giornaliste neo-femministe:

Un ebreo che viene eliminato in una camera a gas e una donna che viene uccisa dal suo ex sono due crimini efferati e ugualmente intollerabili ma non sono assimilabili in alcun modo.

 

Davide De Luca

Il femminicidio sembra essere un fenomeno endemico: costante e uniforme nel tempo e più o meno immune dalla gran parte delle influenze esterne (almeno quelle che si possono misurare su una scala di vent’anni). Criminologi e sociologi sono sostanzialmente d’accordo con questa tesi: molte ricerche effettuate in vari paesi mostrano che il tasso di omicidi tende a fluttuare molto più del tasso di omicidio femminile – potete leggere le argomentazioni a supporto di questa tesi nell’articolo di Patruno. […]

Le conclusioni a cui giungono i vari articoli che abbiamo segnalato sono diverse. Patruno e Tonello sostengono che sia inutile prendere misure straordinarie, prevedere nuove categorie di reati e istituire task force ministeriali. Somma e De Maglie invece ritengono che l’Italia sulle politiche di prevenzione sia ancora molto indietro e che quindi il tasso di omicidi potrebbe essere abbassato con adeguati investimenti.

Che queste misure straordinarie esistano o meno fa poca differenza. Se ci sono andranno prese sulla base dei dati che possediamo, che indicano la presenza di un fenomeno endemico e di lunga durata. Quelle prese in maniera emotiva sulla base della percezione di un’emergenza, rischiano invece di combattere un fenomeno che non esiste.

Ora, credo che vada sottolineato con forza un aspetto. Le discussioni sull’uso del linguaggio non sono faccende oziose: sottintendono la tacita, talvolta inconscia, condivisione di una visione del mondo. Un tempo non molto lontano molti di quelli che oggi definiamo femminicidi sarebbero rientrati nella categoria dei cosiddetti “delitti d’onore” puniti con pene attenuate rispetto agli omicidi generici. Vale la pena di riportare la norma del Codice Penale sul delitto d’onore abrogata nel 1981.

Codice Penale, art. 587
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.

 

E voglio aggiungere che anche il cosiddetto “matrimonio riparatore”,  come pratica che legittimava la violenza sulle donne, purché l’onore perduto dalla vittima fosse riguadagnato sposando l’aggressore, sparisce dal codice penale sempre nel 1981: l’altro ieri verrebbe da dire.

Sono cose note. Ma vale la pena ricordarle. Perché, a dispetto di quanto si crede, il cambiamento di mentalità ha tempi lunghi. Trent’anni, o poco più, sono un nulla rispetto alla “lunga durata” di mitologie e stereotipi che hanno colonizzato l’immaginario (e quindi il comportamento) maschile e femminile per millenni.

Ancora una notazione linguistica. La parola “femminicidio” ha una sua storia specifica. Viene coniato nel 1993 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde per definire

la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misoginemaltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia.

 

Due osservazioni. In primo luogo, a dispetto delle semplificazioni giornalistiche, sfruttate da chi nega il fenomeno, il femminicidio nella sua accezione originaria non coincide solo con la sua manifestazione estrema, ovvero l’uccisione della vittima, ma comprende ogni forma di violenza esercitata sulle donne che ne mini in profondità la capacità di scelta e autodeterminazione. In secondo luogo, il fatto che “prima” del 1993  il femminicidio non avesse ricevuto la sua specifica denominazione, non implica affatto che esso non esistesse e che sia stato allora “inventato”: casomai rimanda ad una più acuta sensibilità sociale, storicamente spiegabile, rispetto a un tema prima sottovalutato fino all’invisibilità. Non vedere, o non voler vedere una cosa, non vuol dire che essa non esista.

Ora, con buona pace di quanti nascondono la testa come gli struzzi sotto la sabbia di statistiche lette in modo più o meno  manipolato, credo sia dimostrato che ancora oggi esiste nella nostra società un’evidente asimmetria nei ruoli sociali (certificata dall’OCSE) attribuiti rispettivamente alle donne e agli uomini. Cosa c’entra questo con il femminicidio? A mio avviso il nesso esiste ed è abbastanza evidente.

La subordinazione della donna all’uomo, la disparità di potere fra i sessi, per quanto ufficialmente negata, è inscritta in profondità nel nostro modo di intendere i rapporti, sia nella sfera privata che in quella pubblica. L’arbitrio del dominio si esercita in molti modi, in casa e fuori, secondo una scala differenziata di evidenza o intensità, e non di rado con la tacita connivenza di chi si trova in una posizione di sudditanza, dando per scontato che le cose non possono andare altrimenti, perché sarebbero rette dalla necessità “naturale” insita nella distinzione dei compiti, della “sensibilità”, del “carattere”.  E tutto questo a dispetto dell’uguaglianza “formale”, sulla quale a parole sono tutti d’accordo ma che nelle pratiche è costantemente disattesa: in famiglia e fuori.

Se tutto questo è vero, perché meravigliarci se la violenza specificatamente sessista viene negata e ricondotta a un fatto privato (il delitto “passionale”, la relazione finita male, l’atto di impeto che non può essere previsto – e che, per inciso, richiama tanto lo “stato d’ira” che un tempo giustificava il delitto d’onore), senza rendersi conto che l’atto estremo, che conduce alla morte o alla mutilazione, non è altro che la manifestazione più eclatante della discriminazione alla quale le donne, ancora oggi, sono sottoposte, e non di rado con la loro tacita e inconsapevole complicità? Ma ammetterlo significherebbe accettare che esso ci riguarda molto più di quanto siamo disposti a riconoscere. 

A questo proposito, non a caso, Bourdieu ne “Il dominio maschile” parlava di “violenza simbolica”:

La violenza simbolica […] è quella forma di violenza che viene esercitata su un agente sociale con la sua complicità […] Chiamo “misconoscimento” il fatto di accettare quell’insieme di presupposti fondamentali, pre- riflessivi, che gli agenti fanno entrare in gioco per il semplice fatto di prendere il mondo come ovvio”.

 

Femminicidio come “endemico“: quindi ovvio. Femminicidio come “una sottospecie di violenza domestica o passionale“: quindi ovvio. Femminicidio come l’omicidio di “quella donna che ha lasciato quell’uomo“: quindi ovvio. Femminicidio come violenza omicida verso “donne che vengono uccise nei contesti familiari o dai partner perché sono parte di relazioni che finiscono o per gravi tensioni emotive di vario tipo“: quindi ovvio. Signori miei, si sa che qualche volta le cose in famiglia vanno male, e che a qualcuno più stressato magari può scappare la coltellata, se la consorte alza troppo la cresta e magari pretende di fare di testa sua. Son cose che capitano, che bisogno c’è di fare tanto chiasso? Qui siamo in occidente, siamo tutti liberi, evoluti e progressisti. E le donne non le picchiamo nemmeno con un fiore. Quasi tutti, almeno. 

Insomma, grossomodo il messaggio è questo: ed è un messaggio non solo maschile, ma condiviso da molte donne. Perché fa comodo pensare che qui le cose vadano meglio che altrove. Perché è gratificante sentirsi sempre e comunque dalla parte del giusto. Perché se uno ammazza la moglie, la compagna, la fidanzata, la figlia, non può condividere niente con noi, che siamo bravi, educati e non violenti,e magari ci ricordiamo pure di regalare le mimose alle nostre donne l’8 marzo. Perché mettere in discussione logiche di subordinazione assorbite inconsapevolmente in anni e anni di condizionamenti non espliciti ma non per questo meno pervasivi e influenti è faticoso e destabilizzante.  Per gli uomini e per le donne.

Infine. Anch’io sono convinta che il femminicidio non sia un’emergenza di ora. E che rimandi a dinamiche e comportamenti di lungo periodo. Ma sono altrettanto persuasa che solo adesso riusciamo a vederlo con sufficiente chiarezza e con la giusta indignazione: proprio per questo, per evitare che scompaia nel cumulo delle tante, troppe ingiustizie invisibili e anonime, ma non per questo motivo meno reali, occorre non abbassare la guardia.

(Ultim’ora: che la questione femminile non sia esattamente al centro dell’interesse nei luoghi dove il potere si esercita, è dimostrato anche dall’aula della Camera semivuota al momento della ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza verso le donne).

 

 

 

 

 

Commenti Facebook
Questa voce è stata pubblicata in comunicazione, media, società e contrassegnata con , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.