Generazioni (perdute e fallite)

Stamattina, vincendo la consueta pigrizia domenicale, mi sono alzata in tempo utile per prendere il regionale delle 9.05, destinazione Pisa, Internet Festival 2012. L’ho fatto in nome e per conto di un discreto numero dei miei ex-alunni, oggi trenta-quarantenni, appartenenti alla generazione che, con espressione pensosa e compunta, il nostro illuminato premier Monti, ha definito “perduta”. E appunto oggi, a Pisa, era previsto un panel sulla “generazione perduta”, curato dai promotori del “Manifesto della Generazione Perduta” ( presenti Gianluca Sgueo, Stefano Epifani, Ernesto Belisario, Alessio Jacona) Un like sulla relativa pagina di Facebook non basta. Bisognava cercare il contatto diretto. E sono andata.

Devo dire la verità. La voce “dal sen sfuggita” a Monti, a suo tempo, mi fece sobbalzare sulla sedia. Perché se quella generazione è “perduta”, la mia, di necessità, dovrebbe/deve sentirsi “fallita”. Che ci sono stata a fare per trent’anni in aula, a che cosa sono serviti il mio impegno, la mia passione, il mio convincimento (la mia “illusione”?) di star compiendo in un modo o nell’altro, come meglio sapevo, il mio dovere di docente e formatrice? Avrei dunque perso il mio tempo, venduto fumo, spacciato sogni irrealizzabili, mentre qualcun altro, alle spalle mie e dei miei allievi passati, presenti e futuri, stava letteralmente mandando a puttane risorse, prospettive, opportunità, in una parola il futuro? Insomma, messa davanti a questo pensiero, mi sono, lo confesso, abbastanza incazzata: anche perché non ci sto ad assumermi colpe non mie.  Per quanto impegnata, consapevole e aggiornata, sono “solo” una prof di liceo, e non un illustre membro dell’establishment come, giova ricordarlo, è ed è stato, per decenni, il senatore – professor Monti (ovvero: e lui dov’era mentre qualcuno si “perdeva” una generazione intera?).

L’evento di stamani non mi ha deluso: è stato vivace, chiaro, interessante. E, soprattutto, non è stato, come dire, dottorale ed impostato (della serie: tre signori che sul palco parlano piacevolmente per un’oretta  mentre il pubblico dormicchia o smanetta su Ipad e Iphone pensando ad altro … c’è stato anche questo all’Internet Festival di Pisa, va detto) ma interattivo e aperto a successivi sviluppi. Non ne avevo bisogno ma mi sono ulteriormente convinta che l’iniziativa va sostenuta, promossa e appoggiata. Stefano Epifani ha insistito molto su un aspetto: non si tratta di “fare rete” per trasformarsi poi in una lista civica o qualcosa del genere. Il gruppo sorto attorno al Manifesto ha l’obiettivo di fare pressing sulla politica perché vengano adottate quelle elementari misure di civiltà in grado di favorire un naturale, sano, efficace ricambio generazionale: perché talenti, competenze, passioni non siano semplicemente gettate in un drammatico abisso di disincanto, frustrazione, disperazione. Siamo, di fatto, prossimi alla campagna elettorale: ricordiamolo.

E fin qui tutto bene. Ma … Io un “ma” lo devo sempre trovare, è più forte di me. Forte e chiara, anche stamattina, è uscita fuori la parolina magica, il mantra dei nostri tempi confusi: merito. Ora, è ovvio che nessuno può essere ragionevolmente contro il merito, ci mancherebbe (se ricordate, ne parlava parecchio anche la Gelmini che di certo era arrivata là dove stava per altre ragioni, vista la sua non eccelsa carriera accademica e professionale). La valorizzazione del merito è come la pace nel mondo: non si discute. Tanto più se, come è accaduto e accade in Italia, il merito viene al contrario depresso e svalutato, in ogni campo e situazione, da pratiche clientelari e sistemi di potere parassitari e inefficienti. Tuttavia la nozione di merito è piuttosto ambigua e meriterebbe un certo approfondimento, se non altro perché tutti la sventolano come la madre di tutte le soluzioni: forse perché, com’è umano e naturale, ognuno, a meno che non soffra di una patologica mancanza di autostima, si sente ovviamente “meritevole”. Come canta Ligabue: tutti vogliono viaggiare in prima, l’hostess che c’ha tutto quel che vuoi … con quel che segue.

Ma il merito, se è vero, presuppone che ci siano quelli bravi, ma bravi sul serio, e quelli che sono semplicemente, umilmente, tranquillamente, normali. E di questi che ne facciamo? Si badi bene, non sto predicando il ritorno ad un egualitarismo maldestro che, in verità, ha fatto parecchi danni, specialmente nella scuola. Ma se ipotizziamo che una gerarchia per merito (e non per raccomandazione) debba comunque strutturare la società, dobbiamo anche tener conto che in una scala gerarchica c’è chi sta in cima, chi nel mezzo, chi in fondo: e come si evita, a questo punto, che le posizioni relative sulla scala per un verso non siano determinate da fattori indipendenti dalla buona volontà e dalle doti dei singoli, per l’altro non si risolvano in meccanismi di nuova esclusione sociale e di ghettizzazione e sfruttamento di chi sta in fondo (o di chi, per un motivo o per l’altro, subisce una sorta di “downgrade” sociale)?

Ecco perché diffido, in generale, di questa enfasi un po’ retorica che da un po’ di tempo in qua si accompagna alla parola “merito”. Prima di parlare di “merito”, bisognerebbe in primo luogo verificare che la gara non sia viziata in partenza da condizioni iniziali di diseguaglianza di fatto. Secondariamente, non si può ragionare solo di ricambio delle élites, sebbene il tema sia, evidentemente, fondamentale, visto che oggi questo processo è drammaticamente bloccato: ma bisogna considerare la stratificazione sociale nel suo insieme, valutare quelle che sono le opportunità concretamente offerte a chi magari non desidera o non può salire più di tanto, ma aspira, molto semplicemente, a dare il suo contributo responsabile, mantenendo un grado accettabile di sicurezza economica ed esistenziale: insomma la gente comune, onesta e magari non così ambiziosa. Qualcuno questa mattina ha detto che le minori (o inesistenti) certezze rispetto al passato devono essere interpretate, vissute e sfruttate come opportunità: d’accordo, ma se questa “flessibilità buona”, da non confondere con la “precarietà” (e tuttavia siamo così sicuri che non si tratti, alla fine, di una distinzione di lana caprina, di una formula ideologica utile ai meccanismi del neoliberismo?) si traduce poi in quella “corrosione del carattere” di cui qualche anno fa parlava Sennett ( cito: Questo è il problema della personalità nel capitalismo moderno. C’è la storia, ma nessuna narrazione condivisa delle difficoltà, e quindi nessun destino condiviso. In queste condizioni, la personalità si corrode; è impossibile rispondere alla domanda: «Chi ha bisogno di me?»)come la mettiamo?

Ovviamente oggi non c’è stato tempo di approfondire questi aspetti. Mi sono ricordata che dopo tutto il mio blog, per quanto impolverato, esiste ancora e allora ho deciso di rilanciare in questa sede le mie perplessità. Detto questo, credo che i temi posti dal Manifesto della Generazione Perduta siano ineludibili: la discussione è aperta, partecipare è doveroso.

 

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Una risposta a Generazioni (perdute e fallite)

  1. Brava Lorenza, il tuo argomentare pacato e acuto mi riconcilia con questo spinoso argomento. Condivido questa tua impostazione e l’analisi che proponi.
    Cerco di diffonderla.

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