I tormenti del professore di lettere

So che a qualcuno sembrerà strano. Un atteggiamento arretrato e nostalgico. Ma io sono diventata insegnante perché, guarda guarda, credevo (credo) che valesse la pena trasmettere il mio amore per la letteratura. Soprattutto per la letteratura apparentemente più inattuale. Quella che sembra più inutile. Archeologia letteraria. Se ammetto che mi piacciono i Sepolcri di Foscolo e che vorrei non venissero dimenticati, mi devo vergognare? Se dichiaro pubblicamente che giudico i Promessi Sposi (sì, il vituperato e protodemocristiano Manzoni, proprio lui) un grandissimo romanzo, sarò costretta a inginocchiarmi sui ceci? Se credo ancora che bisognerebbe perdere un po’ di tempo a leggere persino Parini? E Alfieri? Che penitenza mi tocca per aver scritto e pubblicato un indegno commento alla Satira V di Orazio? Del mio amore per Leopardi che devo farne?

Ognuno ha le sue perversioni. La mia, per esempio, è quella di pensare che, nel gioco delle interpretazioni, bisogna far mostra di umiltà, e studiare. Rispettare i testi, guardarli con lo sguardo prudente e tuttavia penetrante della filologia. Dopo, solo dopo, possiamo giocare. Insegnare (lasciare il segno) è un affar serio. Sei intrappolato nel passato ma devi guardare al futuro con occhio vigile.

Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle chiese, 
dalle pale d’altare, dai borghi 
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 
Giro per la Tuscolana come un pazzo, 
per l’Appia come un cane senza padrone. 
O guardo i crepuscoli, le mattine 
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, 
come i primi atti della Dopostoria, 
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, 
dall’orlo estremo di qualche età 
sepolta. Mostruoso è chi è nato 
dalle viscere di una donna morta. 
E io, feto adulto, mi aggiro 
più moderno di ogni moderno 
a cercare fratelli che non sono più. 

È una posizione scomoda che si conquista davvero a prezzo di grandi sforzi. Quando frequentavo l’Università e trascorrevo le notti preparando, per esempio, l’esame su D’Annunzio e Alcyone, mi immaginavo non davanti al professore, ma di fronte ad una classe, la mia classe, mentre tentavo di spiegare ad altri quanto in quel momento stavo studiando.

E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

 

E ho continuato a studiare. E solo perché studio, mi sento almeno un poco capace di aprire bocca su quella gente morta, che mi guarda severa dalla nicchia marmorea nel quale una certa mitizzazione retorica  l’ha rinchiusa, ma che pure è stata viva e ancora è in grado di pronunciare le parole della vita. Altro che flipped classroom.

«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».

Ma non è il caso di abbandonarsi alla nostalgia. Perché è esattamente il ruolo del professore che  entra in una classe, apre il suo libro, legge e commenta un autore, esegue il suo show ogni sacrosanta mattina, aspetta le domande degli allievi, chiarisce dubbi e perplessità e infine verifica se quanto spiegato, chiosato, approfondito etc è stato compreso … ecco è esattamente questo che oggi è messo in discussione. No, qualcosa di più. È un modello che, pare, volge al tramonto.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Immaginate la scena. Una trentina di adolescenti annoiati, il prof che legge la Ginestra del Leopardi e si sofferma su enjabement e figure retoriche, iperbati e latinismi, parallelismi e antitesi. Non per amore di erudizione, ma perché convinto che solo smontando  e rimontando il testo se ne possa cogliere il senso profondo. E poi ne commenta il contenuto, alla luce della giusta contestualizzazione storica, magari confrontando qualche interpretazione critica, citando  De Sanctis e Croce,  Binni e Timpanaro, Prete e Luperini …  Se si tratta di un professore che cerca di rimanere aggiornato, va alla ricerca anche di una buona sitografia. Propone, che so, la creazione di un ipertesto, di una pagina web, di una voce di wikipedia. Insomma, ci prova. Non è facile combattere con tutto quello che sta fuori e che solletica fantasia e intelligenza di ragazzini riottosi, e farlo armati solo delle parole di poeti morti secoli fa. In ogni caso questo è stato il mio mestiere. Me lo sono scelto e l’ho tenuto stretto. Mi chiedo solo se potrò continuare a farlo.

A parte ogni altra considerazione (di politica scolastica, di mancanza di risorse, di confusione pedagogico-dodattica), gli annunci che si susseguono (che magari poi si ridimensioneranno, saranno corretti, rivisti, aggiustati … ma intanto un certo tipo di messaggio mediatico è stato, una volta di più, lanciato come un osso ad un’opinione pubblica affamata di capri espiatori) segnano il completo disinteresse verso quello che considero il cuore della mia azione educativa. Conta altro: e, si badi bene, io non ho problemi nei confronti di questo “altro”. Ho le mie brave competenze informatiche, conosco l’inglese e me la cavo con il francese e non mi sono rifiutata di esaminare e valutare nuove strategie didattiche, se ritenevo che fossero funzionali allo scopo prioritario del mio insegnamento. Quello che percepisco, tuttavia, è un attacco preciso esattamente a questa finalità, che per me è fondamentale: trasmettere una conoscenza di base, e tuttavia approfondita, criticamente motivata, della letteratura (ma analoga considerazione si potrebbe fare per la filosofia, la storia, le lingue classiche, la matematica e le materie scientifiche in genere).

Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

Lo so bene: mi si potrebbe rimproverare una visione “liceale” dell’educazione. E sia. Mi si dimostri, tuttavia, che possiamo fare a meno tranquillamente di un impianto di questo tipo e che, invece di migliorarlo, convenga al contrario cancellarlo per sostituirlo con un confuso mazzetto di “competenze”  completamente svincolate da una presa in carico della nostra “enciclopedia culturale”. Trasformiamo pure le scuole in centri ricreativi,  i docenti in facilitatori, le materie in una macedonia di abilità preconfezionate buone giusto per i test INVALSI. Calcoliamo secondo una concezione burocratica del tempo l’impegno che ci vuole per costruirsi una cultura e conquistare gli strumenti per trasmetterla ad altri. Paghiamo di più non l’insegnante che fa, bene, l’insegnante, ma quello che si presta ad altre funzioni,  magari fondamentali nella nuova identità della cosiddetta “scuola-azienda” ma che poco hanno a che vedere con l’umile, faticoso eppure entusiasmante lavoro con e per i ragazzi. Privatizziamo l’istruzione pubblica asservendola alla “cultura di impresa”, vero mantra del nostro tempo infelice. Abbiamo già fatto moltissima strada in questa direzione, manca solo l’ultima spinta, ce lo chiede l’Europa. Non quella di Erasmo, beninteso, ma quella immaginata da  Renzi, Reggi e Giannini. 

Mi devo metter l’anima in pace? O vale la pena che ogni tanto mi ricordi perché sono diventata docente e mi sforzi di difendere la mia identità?

Oggi un’educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.

M’accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell’esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l’articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.

Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.

E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire”».

(Testi di Pasolini, D’Annunzio, Machiavelli, Leopardi, Montale, Calvino, scelti proprio perché sono i testi che ancora si leggono, e si commentano, a scuola. Se avanza tempo).


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