Interstellar è un’americanata. Ma io mi sono commossa ( e qui vi spiego perché).

Va bene, è vero. Dal punto di vista dell’accuratezza scientifica, Interstellar fa acqua. Anche sulla verosimiglianza e sulla coerenza della sceneggiatura ci sarebbe da ridire ( Attivissimo  lo fa in modo ineccepibile). E come film di fantascienza, di “quel” tipo di fantascienza speculativa che ti mette davanti alle grandi domande, ovviamente 2001 Odissea nello Spazio resta insuperabile. Io non sono un’esperta di sci fi, ma tutto questo lo capisco benissimo.

Però.

Qualche anno fa, leggendo non so quale profezia apocalittica su quello che sarebbe potuto accadere fra quarant’anni o giù di lì, fui colta di botto da un pensiero terrificante. Naturalmente una lo sa che, quando i suoi figli saranno vecchi, lei sarà orami polvere alla polvere. Ma in quel preciso momento, e ancora non so per quale motivo, e senza preavviso, io sentii in tutta la sua spaventosa verità quella che avevo sempre considerato come una possibilità astratta, un evento così remoto da non meritare attenzione: avrei perso Annalivia e Francesco, e loro avrebbero perso me, e le nostre vite, ora così intrecciate, si sarebbero smarrite a vicenda, io sprofondata chissà dove e loro a combattere battaglie per le quali non li avrei potuti aiutare. Mi sembrò di essere risucchiata via come da un gorgo, in una sensazione di puro panico: incredula e terrorizzata.

 

Poco tempo dopo morì mia madre. Qualche volta, in passato, lei mi aveva ripetuto: “Mi fa una rabbia sapere che quando Annalivia e Francesco saranno sposati, lavoreranno, avranno dei figli, io non li potrò vedere …”, e allora io facevo una risata, e dicevo: “Ma pensieri un po’ meno cupi, no?”. Certo, dopo quell’angosciante flash di pochi mesi prima, la comprendevo meglio, tuttavia … Ti sembra che i genitori non debbano mai morire, ma poi muoiono, e tu soffri, ma alla fine lo sai che è nell’ordine delle cose. Solo non ti pare che debba accadere a loro, a te.  Finché non accade.

Due mesi dopo mia madre, in quello che è stato il mio vero annus horribilis, morì mio marito. E qui le cose si sono complicate moltissimo. Annalivia aveva ventun anni, Francesco quindici appena compiuti. Fabio, il loro padre, davvero non li avrebbe visti più. Non fra quarant’anni. Ora.

Io e i miei figli siamo andati avanti. Ci sono stati molti momenti felici, davvero, e altri ancora ce ne saranno. Che so, il diciottesimo compleanno di Francesco, l’esame di maturità, i saggi di pianoforte, il primo esame all’Università. Il viaggio negli Stati Uniti di Annalivia, le sue prime esibizioni canore, gli studi che proseguono. I concerti che siamo andati a vedere insieme. Le cene e le uscite con gli amici. Le discussioni, le chiacchiere e le liti. E le risate, tante.

Fabio non ha conosciuto niente di tutto questo. Ma, al tempo stesso, non saprei dirvi come,  io so che, comunque, Fabio è sempre stato con noi. Non è questione di fede nell’al di là. Non sto dicendo di credere ai fantasmi. Non c’è niente di occulto o di misterioso. Io sono agnostica, se interessa. Di certo Fabio non è partito, come il protagonista di Interstellar, per salvare il mondo, finendo risucchiato in un buco nero che gli ha aperto le porte della quinta dimensione, facendolo viaggiare in su e in giù per il tempo. Il buco nero di cui si sta parlando qui è stato un prosaico e implacabile tumore al pancreas. Tutto molto normale. E terribile. E irrimediabile.

Tuttavia il film di Nolan, fra l’altro, parla di generazioni che si danno la mano attraverso il tempo. Parla del passato che si intreccia al futuro. Parla del lasciarsi e del riconoscersi: in un oggetto, in un’immagine, in un libro. In un sogno. Parla dei genitori “destinati a diventare i ricordi dei propri figli”, per citare una battuta del protagonista, e di quale straordinaria e tremenda responsabilità questo rappresenti. Parla dell’amore che ci lega gli uni agli altri, al di là dei limiti fisici. Parla di un padre e di una figlia: che si sono persi, fra rimpianto e rancore, e si sono ritrovati, e compresi. Parla della morte. E di un slancio di passione e speranza che, in qualche modo (non sempre, non comunque) ci proietta al di là della morte. E ci salva.

E sì, lo fa, a tratti, in modo retorico, persino sdolcinato. Ma io penso che qualche volta ci sia pure bisogno di buoni sentimenti. Mentre Cooper, il protagonista, seguiva in lacrime i messaggi dei figli che, davanti ai suoi occhi, si trasformavano rapidamente da ragazzini in adulti (e lui, intrappolato dalla relatività, era sempre lo stesso, un’ora sua valeva sette anni sulla terra), non mi sentivo per nulla cinica. Pensavo che in fondo è proprio così, per tutti. Come i personaggi del film, lanciamo nell’oscurità i nostri messaggi a chi non è più vicino a noi, perso in un viaggio di cui non sappiamo nulla, magari senza credere davvero che possano essere ascoltati: eppure lo facciamo. Insomma, in poche parole, mi è parso che Interstellar parlasse di me. Anzi, per essere più precisa, parlasse con me, di cose che confusamente avvertivo da tempo e che mi riguardano molto da vicino.

A me non sembra poca cosa per una megaproduzione di questo genere, con tutti i limiti e i vincoli che pure ci devono essere stati. Poteva farlo meglio? Chissà. L’apparato fantascientifico o parascientifico appesantisce  la tesi, a volte il film è troppo didascalico, a volte troppo poco. Naturalmente sono gli Americani a salvare l’umanità dall’estinzione, e Cooper è un cavaliere senza macchia e senza paura,  fin troppo integerrimo, un po’ cowboy e un po’ supereroe. Mi sta bene. Sì, per una volta mi sta bene non scervellarmi troppo, prendere la storia come viene, e magari, senza farmi vedere, commuovermi un po’.

Don’t you hear my call?
Though you’re many years away
Don’t you hear me calling you?
Write your letters in the sand
For the day I’ll take your hand
In the land that our grandchildren knew.

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