#JeSuisCharlie senza ripensamenti

je_suis_charlieNon sono una provocatrice, sono educata e rispettosa e, anche se vivo in terra toscana, dove le bestemmie (pardòn,  i mòccoli, come li chiamiamo qui) segnalano non tanto la miscredenza quanto una certa simpatica intimità con il buon Dio, visto come uno di famiglia che si può, se è il caso, amichevolmente insultare, non apprezzo affatto la blasfemìa verbale.

Dirò di più: ho amici che si vantano di essere impenitenti mangiapreti, e non perdono occasione, specialmente su facebook e affini (dove, si sa, la tentazione di scrivere senza pensare è quasi irresistibile, forse perché si sa, o si spera, di non pagare pegno) per sbeffeggiare  fedi e fedeli di qualunque credo e natura e sbandierare il loro laicismo estremo. Non mi accodo mai alle loro esternazioni goliardiche e non le approvo, nonostante il mio dubbioso e inquieto agnosticismo. O forse proprio a causa sua.

E, tutto sommato, il genere Charlie Hebdo non mi è mai piaciuto più di tanto.

Ma

E il mio “ma” è diverso da quello di chi: sì, vabbè la libertà di stampa, MA questi signori un po’ se la sono cercata (e se la cercano ancora). Opposto e simmetrico.

Ho letto tanto in questa settimana, e ho riflettuto a lungo. E sono stata zitta. A che pro aggiungere le mie parole, e l’ennesimo,  inutile post, alla cacafonia di voci scomposte che si sono alternate sui media e nei social network?

Tuttavia … Nel giorno in cui persino il Papa, fra frizzi e lazzi,  si è lasciato scappare un’ ecumenica sciocchezza (secondo la quale, certo, non si uccide in nome di Dio, ma le religioni non si toccano, perché altrimenti … insomma, tanto per fare un esempio, se qualcuno gli offende la mamma,  si aspetti pure un pugno), dimenticandosi opportunamente per l’occasione del fondamentale principio “porgi l’altra guancia” (lo sanno a memoria il diritto di Dio, ma scordano sempre il perdono), mi pare giusto rompere il silenzio. In definitiva quel che è successo ci chiama in causa. Tutti. Impossibile sottrarsi, mettere la testa sotto la sabbia, parlare d’altro o trincerarsi dietro l’usuale ipocrisia del “politicamente corretto”. La faccenda ci tocca troppo da vicino, e il rischio è grosso.

Userò parole non mie.

Sì, il conflitto israelo-palestinese è una realtà, sì, la geopolitica internazionale è un susseguirsi di manovre e di sporchi trucchi, sì, la situazione sociale delle, come si dice, “popolazioni di origine musulmana” in Francia è profondamente ingiusta, sì, il razzismo e le discriminazioni devono essere combattute senza tregua.

Ci sono fortunatamente diversi strumenti per tentare di risolvere questi gravi problemi, ma sono sempre inefficaci se ne manca uno: la laicità. Non la laicità positiva, non la laicità inclusiva, non la laicità-non-so-cosa, la laicità punto e stop.

Essa sola permette, perché esalta l’universalità dei diritti, l’esercizio dell’uguaglianza, della libertà, della fraternità, della sorellanza. Essa sola permette la piena libertà della coscienza, libertà che viene negata più o meno apertamente, a secondo del loro posizionamento nel marketing,  da tutte le religioni, a partire dal momento in cui abbandonano il terreno della stretta intimità per scendere sul piano politico.

Essa sola permette, ironicamente, ai credenti, e agli altri, di vivere in pace. Tutti quelli che pretendono di difendere i musulmani, accettando il discorso totalitario religioso difendono in effetti i loro carnefici. Le prime vittime del fascismo islamico sono i musulmani.

Le milioni di persone anonime, tutte le istituzioni, tutti i capi di Stato e di governo, tutte le personalità politiche, intellettuali e mediatiche, tutti i dignitari religiosi che, questa settimana, hanno proclamato “Je suis Charlie” devono sapere che questo vuol dire anche “Io sono la laicità“. Noi siamo convinti che per la maggioranza dei nostri sostenitori tutto ciò vada da sé.  E lasciamo che tutti gli altri se la sbrighino per conto proprio con questo principio

Un’ultima cosa, importante. Noi vorremmo mandare un messaggio a papa Francesco, che, anche lui, “è Charlie” questa settimana: noi non accettiamo che le campane di Notre-Dame suonino in nostro onore finché non saranno le Femen a farle suonare. (Gerard Biard, Est-ce qu’il aura encore des «Oui, mais»?)

Questo passo è tratto dall’editoriale di apertura del numero appena uscito di Charlie Hebdo. Non credo ci sia molto da aggiungere. Di fronte a queste parole, tutti i pensosi distinguo degli ultimi giorni si squagliano come neve al sole. Può darsi che la satira di Charlie Hebdo fosse (sia) pungente, dissacrante, urtante, politicamente scorrettissima, per niente condivisibile. Ciò non toglie che non possa essere messa a tacere, né invitata alla prudenza per amor di quieto vivere. In fondo, è stata solo un pretesto, e se  questo giornale non fosse esistito, gli adepti del terrore avrebbero trovato, o inventato, qualche altra ragione per scatenarsi. Perché non era Charlie Hebdo il loro vero obiettivo, ma altro: prima di tutto, la possibile pacifica convivenza delle diversità, anche le più profonde e dissonanti.  E se pensiamo che non sia così, siamo illusi.

La democrazia è complessa e difficile da praticare. Non è affatto qualcosa di pacifico e rasserenante. Presuppone comunque la lotta, la polemica, il dissenso. Li sublima e disinnesca la carica di violenza fisica che possono avere, ma non li cancella. Il fondamento della pratica democratica, hanno ragione quelli di Charlie, non può essere altro che la laicità. Faticosa, contraddittoria, insicura, fragile e perennemente a rischio, oggi più di ieri: ma non dovremmo mai dimenticare il prezzo altissimo che l’Europa ha pagato, nei secoli, per fondare su questa base la propria identità. Non è qualcosa da buttare alle ortiche con tanta leggerezza, in nome di un “ma” .

Quindi, sì, Je suis Charlie, e lo rivendico. 

 

 

 

 

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