La meravigliosa cultura dei quiz

Leggo questo gustoso articolo di Francesco Merlo sull’insensatezza dei quiz che vengono proposti durante l’esame di teoria per il conseguimento della patente di guida.

Quando mi sono trovata a definire la natura dei test Invalsi che vengono imposti a scuola, o delle recenti prove per l’accesso al TFA (Tirocinio Formativo Attivo), destinato a formare e abilitare i nuovi (o seminuovi) docenti, o, ancora, dei test di cultura generale per l’iscrizione alle Facoltà a numero chiuso, più di una volta, tanto per il gusto di fare una battuta, l’ho paragonata a quella dei test per la patente. 

Io non so perché Francesco Merlo si sia messo a studiare il libro dei quiz ministeriali per la patente e si sia così tanto incazzato: presumo che un figlio, o magari un nipote, si sia trovato alle prese con l’ardua prova. Intendiamoci: Merlo ha ragione da vendere. Ma quello che mi meraviglia è il fatto che nessun insigne giornalista si prenda mai la briga di andarsi a leggere i test che ormai spopolano nelle aule scolastiche e si faccia qualche domanda. Se la stampa nazionale ci concede qualche obiezione sensata a questo pessimo andazzo, la dobbiamo alla penna di pochi addetti ai lavori, come Luciano Canfora o, sui blog dell’Unità, Leonardo Tondelli.

Eppure sembrerebbe un dato di comune buon senso ritenere che la cultura sia qualcosa di più complesso che un ammasso informe di nozioni prive di contesto: e che la padronanza di suddetta complessità non sia dimostrabile semplicemente mettendo una crocetta al posto giusto, nel tentativo di rispondere a domande più o meno cervellotiche partorite da chissà chi.

Ma il punto, alla fine, è un altro. Sappiamo tutti che la qualità ha un costo: in termini di denaro e di tempo (e se il tempo è denaro …). Se lo scopo del meccanismo nel quale ci troviamo invischiati è quello di risparmiare sui costi, ottimizzando i profitti, è ovvio che quanto non sia immediatamente misurabile, quantificabile e quindi monetizzabile perde automaticamente di valore e significato: non è produttivo, almeno non secondo questi criteri o parametri. Valutare seriamente e approfonditamente che cosa sia il sapere è del tutto antieconomico in tempi brevi (e del futuro chi se ne frega, magari hanno ragione i Maya). L’alternativa è il test standardizzato: rapido, poco costoso e apparentemente oggettivo.  La sua pretesa scientificità si basa unicamente su questi principi: la retorica dei numeri funziona, ma dietro metodi statistici più o meno deformati per impressionare un’opinione pubblica superficiale e poco attenta, ci sono solo chiacchiere. E anche una buona dose di ignoranza.

E le chiacchiere ignoranti fanno danno, purtroppo.

 

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