L’anti-recensione di un romanzo anti-biografico. Andate tutti affanculo di The Zen Circus con Marco Amerighi

Se questo romanzo è, come dichiarato ufficialmente, un’anti-biografia, allora merita, di necessità, un’anti-recensione. Quindi, gli incauti lettori che eventualmente si imbattessero in questo post non troveranno gli ingredienti soliti di una recensione: considerazioni dotte sullo stile, osservazioni pensose sulla coerenza della trama o sulla costruzione dei personaggi, elucubrazioni più o meno documentate sul contesto (storico, sociale, musicale) della vicenda, intelligenti inferenze sul significato riposto del testo o sulla verosimiglianza della narrazione.

Troveranno, piuttosto, il tentativo di condividere un’emozione e una serie di domande che una lettrice qualunque si è fatta man mano che divorava, assai velocemente in verità, le pagine di questo strampalato, commovente, urticante e provocatorio racconto «on the road» degli inizi di una band, The Zen Circus, fra le più significative e interessanti nel panorama musicale italiano.

Il libro mi è arrivato, grazie ad Amazon, il 10 settembre, lo stesso giorno della sua uscita ufficiale nelle librerie: il 10 notte l’avevo bell’e finito. E allora perché aspettare così tanto per «anti-recensirlo»? Perché l’ho dovuto metabolizzare bene. Nel mezzo ci sono stati almeno due firmacopie (con selfie di rito: come sottrarsi allo spirito dei tempi e alla dittatura di Instagram?) e la straniante esperienza di Villa Inferno, il raduno biennale della sconclusionata, lunatica, «disfunzionale» famiglia Zen. Nonché, ovviamente, la lettura di un buon numero di recensioni vere e di commenti di lettori, alcuni, in verità, non positivi: da qualcuno il libro è stato accusato di essere di fatto una rimasticatura post-adolescenziale di luoghi comuni già sentiti, fra Salinger e Kerouac (non sono d’accordo, ma questa è un’altra storia).

E intanto pensavo, pensavo. Va da sé che sono una fan degli Zen Circus, va da sé che certi aneddoti li conoscevo, va da sé che posso cantare a memoria un bel numero di loro pezzi. Eppure, mentre leggevo e poi riflettevo, nella mia testa non risuonava tanto la loro musica, che pure riconoscevo in filigrana fra le righe del testo, ma una canzone della mia giovinezza (anno 1979, per l’esattezza): Hey Hey My My (Into the Black), di Neil Young e The Crazy Horses.

Hey, hey, my, my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture than meets the eye
Hey, hey, my, my
Out of the blue and into the black
You pay for this and they give you that
Once you’re gone you can’t come back
When you’re out of the blue and into the black
The king is gone but he’s not forgotten
Is this the tale of Johnny Rotten?
It’s better to burn out than to fade away
The king is gone but he’s not forgotten
Hey, hey, my, my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture than meets the eye
Hey, hey, my, my …

 

Vorrei precisare: nel 1979 ero uno brava e studiosa ragazzina (meglio dire «ragazzona», forse, data la mole?) di provincia, con in tasca la sua bella maturità classica conseguita con il massimo dei voti, pronta ad iscriversi a Lettere. Andrea Appino, il frontman della band, aveva un anno, Ufo, il bassista, era un bambino, e Karim, il batterista, non era nemmeno nato. Il punk mi disorientava, ascoltavo moltissimo Dylan e C, stavo ancora scoprendo i cantautori italiani. Ma una cosa l’avevo chiara, sebbene mi spaventasse non poco: la musica mi stava portando, lo volessi o no, molto lontano dalle rassicuranti certezze della mia famigliola (già in procinto di spezzarsi, in realtà) piccolo-borghese.

Oh bella, ma perché invece di parlarci del libro, ci racconti di te? Cazzo c’entra? Ve l’ho detto, cari, questa è un’anti-recensione, se vi va, è così, al libro ci arriverò, ma a modo mio. 

Insomma, allora come oggi mi agitavano quelle due o tre frasi: il rock and roll non può morire, nel quadro c’è più di quanto l’occhio sia in grado di vedere e, soprattutto, meglio esplodere che svanire  nel nulla.

Passa il tempo, la mia famigliola non più rassicurante va in pezzi, io mi laureo, comincio a lavorare, mi sposo e metto al mondo una figliola: tutto nel giro di una manciata di anni, più o meno sette o otto.  Fra una fase e l’altra, affronto anche momenti nerissimi, corro il rischio di perdermi, ma, camminando sul filo del rasoio, mi tengo in piedi, ricostruisco la mia vita e divento… divento una prof! Parafrasando (i fan degli Zen capiranno), avevo cercato, e trovato, un amico (che era anche l’amore della mia vita), un lavoro, una casa, il decoro.

Ecco, brava. E allora? Vogliamo arrivare al punto?

Ci arrivo, sì. Approdiamo agli anni Novanta. Io, ormai «pilastro della comunità», che tuttavia continuavo a coltivare, fra vinili e cd, «i miei sogni di anarchia», il mio angolino segreto di ribellione. E gli Zen che iniziavano il loro accidentato percorso. Strade molte lontane, quasi completamente estranee. Fra me e me, mentre leggevo e ripercorrevo nella fantasia vie e piazze di una Pisa che mi illudevo di conoscere bene ma che, in quella chiave maledetta e tossica, era a me del tutto ignota, continuavo a chiedermi: «Ma io dov’ero? Che facevo?». Facevo la prof, e magari mi sarei potuta imbattere, con qualche mio alunno, in quella febbre, in quel disagio, in quell’inquietudine, che il libro racconta così bene, e non riconoscerli. Forse è capitato, non so. O forse no, perché comunque insistevo a muovermi fra libri e note e, per quanto fossi affidabile, preparata e sufficientemente colta, in linea con quanto si richiede ad una brava prof di provincia, con il suo registro, le sue interrogazioni, i suoi voti e le sue sfuriate, ancora resistevano in me incertezze, smanie, illusioni: la stessa fame che avevo cominciato ad avvertire da adolescente, la medesima insoddisfazione, la voglia di non accontentarmi, di continuare a cercare.

There’s more to the picture than meets the eye

Però si cambia, certo. Il tempo passa, ma, finché possiamo, sta a noi decidere quale ne sarà la direzione. Rimpiangere il passato? Fingere di essere maturi, risolti, sicuri? O abbandonarsi a giovanilistiche smanie fuori tempo massimo? Posso solo rispondere con i versi di un’altra canzone che ha accompagnato il mio viaggio.

Yes, my guard stood hard when abstract threats
Too noble to neglect
Deceived me into thinking
I had something to protect
Good and bad, I define these terms
Quite clear, no doubt, somehow.
Ah, but I was so much older then,
I’m younger than that now.

 

Sì, ero molto più vecchia allora, sono molto più giovane adesso. È in questo punto preciso che due storie tanto diverse,  per età ed esperienze, si intrecciano: in questo imprevedibile cortocircuito provocato, al solito, dalla musica, quella musica che ti cambia la vita, che rischia di ammazzarti e che poi ti salva, persino da te stesso. Con buona pace di chi fa paragoni impropri con Salinger o con Kerouac. Salinger l’ho letto più di una volta, e così Kerouac, e sapevo bene, aprendo «Andate tutti affanculo», che non avrei trovato nulla di simile: non avrei nemmeno voluto, in realtà.

Ho trovato la provincia, quella dalla quale tutti vorremmo scappare, e che ti rimane addosso come un destino o una condanna; ho trovato la voglia di farsi del male e lo scatto inatteso che ti fa risalire dalla melma in cui ti eri imprudentemente ficcato; ho trovato storie simili a quelle dei tossici della mia città, quelli che mi è capitato di incrociare, quelli che sono sopravvissuti e quelli che sono morti; ho trovato l’oscurità e l’angoscia di certe serate alcoliche della mia giovinezza, quando, a dispetto della mia prudenza, mi ritrovavo a tener la testa dell’amica ubriaca, disperata per amore, che vomitava sul marciapiede tutto il suo dolore e la sua paura; ho trovato il male che ti può fare la famiglia, quando, mentre i tuoi si dilaniano usando parole come lame, tu ti rintani in un angolino buio, pregando di scomparire, di essere altrove; ho trovato gli amici, che possono essere più che fratelli, che vanno a fondo con te e con te possono trovare la forza di risalire; ho trovato anche le facce dei miei alunni, il magma caotico di certe adolescenze a rischio che vogliono e non vogliono farsi capire, che si rivelano per un attimo e poi tornano a nascondersi; ho trovato  il muro di incomunicabilità che  separa il rispettabile mondo adulto, sempre pronto a  giudicare con il suo metro di perbenismo interessato e dignità fatta di niente, e quello dei ragazzi che affogano nel loro silenzio, ma che, allo stesso tempo,  con la medesima rabbia che non sanno articolare, domandano una parola di riconoscimento, il segno che, nonostante le cazzate, sono ancora vivi e non invisibili ai nostri occhi. Ho trovato le canzoni degli Zen, e per me sarebbe già sufficiente.

Gli anni Settanta. Gli anni Ottanta, i Novanta. E il primo decennio del nuovo secolo. Nel 2009 gli Zen pubblicano il disco della svolta, quello che dà il titolo al libro, e per loro comincia un’altra storia, della quale, secondo le loro stesse parole, i fatti raccontati nel romanzo sono giusto il prequel. Nel 2010, la mia vita precipita nuovamente per uno scherzo perfido del destino. Ma, se non avessi conservato un briciolo di quella follia che avevo scoperto più o meno intorno ai quindici anni (per me fu Dylan, per qualcun altro è stato il Kurt Cobain di Smells like a teen spirit, quello che, quando si è sparato in testa ha lasciato come ultimo messaggio appunto la frase It’s better to burn out than to fade away, tanto per rimarcare che quel che ti salva, ti può anche ammazzare, in un modo o nell’altro), sarei ancora in piedi? Sarei qui, con le cuffie nelle orecchie e Spotify lanciato nel labirinto della mia memoria, a ripescare frammenti di ricordi per una recensione che non è una recensione?

Ogni lettore, si dice, riscrive il libro che ha fra le mani, colmando i vuoti con le tracce della propria esperienza. Una regola che per me ha funzionato anche in questo caso. Per ogni fatto epocale  (la strage di Capaci, il G8 di Genova, l’11 settembre etc) che fa da esplicito spartiacque e controcanto alle vicende picaresche di tre ragazzi qualsiasi e parecchio sbandati, con in testa il sogno di suonare in una band, la loro band, mi sono chiesta anch’io dove fossi, cosa avessi provato, a che punto si trovasse il mio tempo privato a confronto con il respiro ampio della cronaca pubblica.  Mi sono raccontata a modo mio la vicenda, ho scelto la colonna sonora, ho guardato le svolte, considerato i tempi morti, arrestato il respiro quando il racconto accelerava verso il disastro e sospirato di sollievo quando il baratro veniva evitato di un soffio. In verità tutto potrebbe ancora andare male, ma è proprio il rischio di mandare ogni cosa a puttane che ci fa sentire di essere vivi. Chi è morto (e si può morire in molti modi) ha smesso di essere in pericolo: ma non è un gran guadagno.

E allora? Qual è la morale di tutto questo fiume di parole? È stato già abbastanza difficile arrivare fin qua, che facciamo? Lo compriamo o non lo compriamo questo benedetto romanzo?

Non vi dirò: compratelo, ne vale la pena. E nemmeno: non compratelo, son soldi buttati. Vi ho avvertito, questa non è una recensione, non voglio argomentare, elogiare, stroncare, convincere a fare una cosa o un’altra. Io ho amato queste pagine, perché mi hanno raccontato qualcosa di me, della mia storia, attraverso le storie di altri, apparentemente così lontani, così diversi. E poi sì, il rock and roll non può morire. Se ci credete, tirate le vostre conclusioni. E poi: andate tutti affanculo, ma con amore, come sempre,  e tutti insieme, noi, voi e chi volete voi.

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