Esserci

A proposito di «Perfect Days» (2023), ultimo capolavoro di Wim Wenders

Ho visto (e rivisto) molti film negli ultimi mesi, sia al cinema che in streaming sulle principali piattaforme. Ho incontrato opere belle e meno belle: non dico in senso assoluto, ovviamente, ma in proporzione all’intensità del mio particolare, personale coinvolgimento.

Eppure, anche nel caso in cui avessi avuto la fortuna di concludere la visione tutto sommato soddisfatta, nel convincimento di aver visto un bel film, di quelli che restano, avvertivo comunque un leggero fastidio, una punta di noia («tutto già visto! tutto già detto!»).

Non questa volta, non con l’ultima opera di Wim Wenders, »Perfect Days», protagonista un intenso, straordinario Kôji Yakusho nei panni del personaggio principale, Hirayama. Non starò qui a raccontarvi nel dettaglio la trama, che del resto è quasi inesistente: basta sapere che si tratta della descrizione di pochi giorni nella vita di Hirayama, un signor nessuno, un uomo apparentemente solitario, addetto ad una funzione umilissima, metodico nella scansione delle sue giornate, parco di parole e di gesti. E non vorrei nemmeno addentrarmi in spericolate analisi critiche, confronti e riflessioni filosofiche: in fondo questa non è nemmeno una recensione, e di recensioni, analisi, interviste all’autore etc ce ne sono già moltissime.

Vorrei raccontare altro, a chi avrà la pazienza di leggermi, cosa oggi non così scontata. Vorrei raccontarvi la storia di una spettatrice qualunque, che ha deciso di andare al cinema per assistere alla visione del «film del momento», quello di cui tutti parlano e che non si può assolutamente perdere: in verità senza molta convinzione, ma pensando che ci sarebbero stati modi peggiori di trascorrere quel tardo pomeriggio domenicale. Eppure quella stessa spettatrice, un paio d’ore più tardi, è uscita dal cinema profondamente commossa, con le lacrime agli occhi. E mentre cercava di commentare quel che aveva appena visto, come si fa normalmente fra amici, con tono mondano, quando si esce dalla sala, la sua voce si spezzava.

Quella spettatrice sono io, vecchia, scettica e disillusa. Eccomi qui, dopo il cinema, sola in casa, a ripensare a quelle immagini: il sole che filtra fra le foglie degli alberi (ho scoperto che i giapponesi hanno una parola specifica per indicare il fenomeno, komorebi, e mi è parso meraviglioso), le vecchie canzoni in auto come sottofondo all’usuale tragitto verso il lavoro, il libro che ti cade dalle mani quando ti stai per addormentare, il dettaglio che scopri per caso, il saluto di un quasi estraneo nel locale che ti piace frequentare…

Sono tutte cose che conosco bene e con le quali spesso tento di puntellare la mia solitudine; talvolta riuscendoci, talaltra fallendo miseramente e cadendo dritta in braccio alla depressione, quella che viene fuori dal rimpianto delle cose non fatte, delle occasioni perse che non torneranno, dalla constatazione che ormai sei invisibile ai più, perché gli altri sono tutti presi dai loro affari, dalle loro preoccupazioni, dalle loro ansie e tu, in fondo, ti sei arresa, fermata, nascosta.

Ma altre volte no, non accade. La compiutezza di un attimo: ecco, dovrei forse definirla così. Una battuta del film recita: «Un’altra volta è un’altra volta. Adesso è adesso». Niente di nuovo, a ben vedere. È la stessa lezione che ho appreso dai «miei» classici, Epicuro, Lucrezio, Orazio, Seneca.  Lo stesso ammonimento che ho trovato nei libri sulla mindfulness e nei tanti testi sul buddismo zen e sul Tao che ho consultato nel corso degli anni, trovandovi qualche volta sollievo, ma altrettanto spesso un vago senso di colpa per la mia incapacità di esserci davvero, nell’istante presente, senza rimorsi e senza aspettative.

Ma qui c’era altro. Qui, non a caso, c’era la musica, con tutto quello che può significare, anzi, con tutto quello che significa per me. Sono, in larga parte, le canzoni della mia adolescenza e giovinezza, quelle che ascolto ancora quando voglio sentirmi bene, quando voglio riconnettermi con me stessa. Hirayama  infila le sue vecchie cassette nel mangianastri del furgoncino con cui si sposta, io ormai preferisco Spotify o i video su Youtube. Ma non ho mai gettato né cassette né, tantomeno, i vinili.

Ed era proprio nei punti del film in cui la musica risuonava che i miei occhi si riempivano di lacrime, irrefrenabili, insostenibili. Perché la musica è questo, la strada che ci rinconduce alla nostra verità, al tempo della nostra vita, a chi abbiamo incontrato, amato o solo sfiorato, a quello che abbiamo scoperto e poi magari dimenticato. La musica può essere lenimento della solitudine, colonna sonora delle nostre piccole gioie, ribellione alla noia o all’angoscia, via maestra per una nuova speranza, eco del nostro dolore, compagna fedele al cui cospetto non possiamo mentire.

Ognuno, in un romanzo, una poesia, un film, trova quel che vuole, e talvolta trova il suo riflesso. Io, in «Perfect Days», ho trovato questo, soprattutto nell’ultima incredibile, meravigliosa sequenza, durante il quale l’espressione del protagonista trascorreva dalla gioia al dolore, e poi, nuovamente, dalle lacrime al sorriso, seguendo la voce di Nina Simone che cantava «Feeling Good».

Birds flying high, you know how I feelSun in the sky, you know how I feelBreeze driftin’ on by, you know how I feelIt’s a new dawn, it’s a new day, it’s a new lifeFor meAnd I’m feeling good…

 

 

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