Piombino non deve chiudere. Cronaca di giorni difficili

Sono giorni difficili per la mia città. Dopo il presidio al Rivellino di operai e studenti, assieme al sindaco Gianni Anselmi, ieri, al Ministero dello Sviluppo Economico è stato consumato l’ennesimo strappo, in un tesissimo incontro che ha visto come protagonisti il sottosegretario Claudio De Vincenti, i rappresentanti sindacali, lo stesso sindaco e il governatore Enrico Rossi.

Ieri sera ero assieme agli operai e a tanti altri cittadini al nostro Rivellino, in attesa di conoscere il risultato dell’incontro al ministero. Quando sono arrivati i sindacalisti (e dopo poco il sindaco), sul piazzale è sceso un silenzio pesante, carico di ansia e preoccupazione. Le notizie non sono state buone. A parte un generico impegno per una riconversione in tempi lunghi dell’impianto sulla base di tecnologie più efficaci e meno impattanti, non è stata data alcuna garanzia per il mantenimento dell’altoforno, destinato probabilmente a chiudere entro gennaio: con la prospettiva di tre anni almeno di cassa integrazione per i lavoratori e, in definitiva, dello strangolamento dell’economia della Val di Cornia e di ogni possibile strategia di rinascita. Ricordo che Piombino è il secondo polo siderurgico italiano. Il suo abbandono e la dismissione dei suoi impianti sono uno dei segnali più drammatici della desertificazione del sistema produttivo italiano, un processo che, se non invertito in tempo, condannerà questa nazione ad un inesorabile declino: forse è già troppo tardi.

 

Questo è quanto. Le espressioni tese e sofferenti di chi ha partecipato all’incontro sono in netto contrasto con i lanci di agenzia e le dichiarazioni dello stesso Enrico Rossi. Un gioco delle tre carte sulla pelle delle persone, sempre più arrabbiate, deluse, spaventate.

Claudio De Vincenti è un economista e un professore: dovrebbe forse abbandonare per un po’ i suoi libri e le sue teorie, per scendere in mezzo alla gente e prendere atto davvero della situazione. Perché la tragedia vera è questa: un approccio miope, esclusivamente ragionieristico, che non tiene conto di nient’altro se non di utili e profitti nell’immediato, senza una visione “alta” del futuro, senza la minima considerazione del valore del lavoro, della dignità di uomini e donne veri (non meri numeri in qualche sterile report statistico), della loro vita reale, dello loro speranze e paure. Senza il minimo interesse per la storia di una comunità che ha contribuito moltissimo all’economia di questo Paese, con grande sacrificio, fatica e non poche vittime. E nascondendo tutto questo con scontate rassicurazioni di comodo, come se le persone, oggi, potessero essere imbambolate da qualche roboante promessa e da un pugno di frasette retoriche a buon mercato.

Siamo al grado zero della politica. Il lavoro, celebrato dall’Articolo 1 della nostra Costituzione come il fondamento più saldo dell’inclusione democratica, non è più un diritto (ricordate Fornero?) ma una gentile concessione del cosiddetto “mercato”, che vive di dinamiche proprie, troppo simili all’antico e cinico sfruttamento di ottocentesca memoria. Anche per questo motivo, ieri al Rivellino  è stata ventilata con forza l’idea di far partire proprio da Piombino la richiesta di dimissioni del ministro Zanonato che, evidentemente, pur avendo giurato su quella stessa Costituzione che pone il lavoro a fondamento della nostra democrazia, ha dimenticato il significato profondo di questo impegno.

Piombino è una metafora potente di questo dramma, di quella “lotta di classe dopo la lotta di classe” di cui parla Luciano Gallino. Ieri sera orgoglio, frustrazione, timore si mescolavano in un modo che sarà difficile dimenticare per chi era presente.

Intanto Roma, oggi, è una città militarizzata e sotto assedio: perché la richiesta di casa e lavoro, contro la politica di tagli, la progressiva  precarizzazione dei cittadini, il loro rapido impoverimento, è di quelle che fanno paura. Davanti all’esasperazione, ancora una volta, la politica è silente, chiusa nel suo fortino assediato, in attesa che la tempesta passi in un modo qualsiasi, pronta a tornare, come sempre, ai suoi giochetti autoreferenziali che nessuno, o quasi, riesce più a comprendere: mentre lo scontro sociale si fa sempre più aspro e preoccupante.

Per quanto ci riguarda, nessuno si faccia illusioni: non ci presteremo al gioco che ci vuole silenziosi e rassegnati ma, da qui a gennaio, sia pure dando prova dii tutto il senso di responsabilità che ci resta, venderemo cara la pelle.

Perché ne va della nostra identità, del nostro orgoglio (di “gente di mare, gente d’acciaio”, come ci ha definito il sindaco) e, soprattutto, del futuro dei nostri figli. 

 

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