Proposta di «flânerie» digitale (e non solo), per uscire dai luoghi comuni.

Attenzione: post astruso, scritto in linguaggio aulico, con tanto di citazioni e bibliografia. Io vi ho avvertito. 

 

imagesC’è un racconto di Poe, si intitola l’Uomo della Folla (The man of the crowd, qui nella traduzione in francese di Baudelaire), risale al 1840, agli albori, quindi, della nostra modernità. Si apre, in epigrafe, con una citazione di La Bruyère: Ce grand malheur de ne pouvoir être seul! L’io narrante di descrive mentre, seduto al tavolino di un caffè londinese, immerso in un piacevole ozio, osserva dalla vetrina del locale la folla variegata che anima la strada all’imbrunire. Dopo essersi dedicato alla minuta descrizione dei tratti tipici di varie categorie di persone (distinti uomini d’affari, semplici impiegati, tagliaborse, giocatori, merciaioli ebrei, mendicanti falsi e veri, umili operaie e donne pubbliche di “ogni età e grado”, ubriachi e, ancora, pasticcieri e facchini e carbonai e spazzacamini e suonatori ambulanti d’organino e operai laceri e lavoratori d’ogni specie, esausti dalla loro fatica, chiassosamente affaccendati in un continuo e sregolato andirivieni che offendeva l’occhio per la sua assenza d’armonia, tutti colti nei loro tratti tipici, privi di individualità definita, come membri anonimi e indistinti di una folla a suo modo mostruosa e proteiforme, ad un tratto la sua attenzione viene attratta dalla fisionomia inquietante di uno strano individuo: Egli era basso di statura e molto magro, come anche allo stremo delle sue forze. Gli abiti erano sudici e a brandelli. Al bagliore dei becchi, sotto ai quali, di tratto in tratto, egli passava, m’avvidi che aveva una camicia e che essa, benché fosse sudicia, era d’un finissimo tessuto, e attraverso una spaccatura della sua giacca attillata – la quale appariva acquistata d’occasione – mi sembrò vedere, se la vista non ebbe a giocarmi, il brillio d’un diamante, ovvero d’un pugnale. Tutto questo valse ad eccitare vieppiù la mia curiosità ed io decisi di seguire lo sconosciuto per ogni dove, in qualsiasi luogo egli fosse andato.

Il racconto prosegue descrivendo l’insensato inseguimento di questo vecchio, al tempo stesso disperato e demoniaco, incapace di tollerare l’isolamento, perennemente alla ricerca di una sorta di immersione niente affatto catartica nel ventre oscuro della folla, attraverso il labirinto delle strade metropolitane, di paesaggi urbani sempre diversi, sotto la fitta pioggia, per tutta la notte e tutto il giorno seguente, fino al fatale ritorno al punto di partenza, quando, finalmente, l’inseguitore si decide ad affrontare, guardandola negli occhi, la sua preda.

Annientato dalla fatica com’ero, al cader della seconda sera, affrontai risolutamente lo sconosciuto e lo fissai negli occhi. Ma egli fece la vista di non accorgersene. E riprese, d’un subito, la sua solenne andatura, mentre io rimanevo immobile a riguardarlo, e a seguirlo non mi bastava più l’animo. «Questo vecchio», dissi allora a me stesso, «è il genio caratteristico del delitto più efferato. Egli non vuole rimanere solo. È l’uomo della folla. Sarebbe invano che lo continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto sapere. Il più malvagio cuore che esista al mondo è un libro ancor più volgare dell’ Hortulus animae e dobbiamo gratitudine alla pietà di Dio che es läßt sich nicht lesen».

turtle_croppedL’osservatore e il vecchio sono in realtà  proiezioni del singolare sdoppiamento che subisce, nel racconto di Poe, la figura del flâneur, personaggio emblematico della narrativa dell’Ottocento, nelle sue diverse incarnazioni, da Balzac fino a Poe e Baudelaire e oltre. Chi è il flâneur? In origine si tratta del gentiluomo curioso e sfaccendato che bighellona per la città, osservando con amabile curiosità le variegate manifestazioni dell’umanità, senza, peraltro, lasciarsene travolgere, ma mantenendo il distacco ironico dell’uomo colto in grado di esercitare uno sguardo critico ed elegantemente spassionato sulla metamorfica realtà urbana che si offre alla sua analisi. Man mano che la metropoli ottocentesca assume i tratti caratteristici di una modernità tentacolare e opprimente,  abitata da una “massa” indistinta nella quale l’individuo è destinato fatalmente a perdersi e i legami tradizionali di comunità a spezzarsi traumaticamente, senza che sia possibile ritorno o redenzione, il flâneur diventa una figura al tempo stesso comica e tragica. Inutile nella sua fatale improduttività, rimanda fra l’altro all’immagine di un intellettuale consapevole di aver perduto, nel tumultuoso passaggio da un’epoca all’altra, ruolo e valore: non più profeta, non più figlio prediletto della Musa, non più eroe della conoscenza liberatosi dalle catene che lo tenevano avvinto nella platonica caverna, ma rotellina anonima di meccanismi economici e sociali che sfuggono non solo al controllo ma persino alla comprensione individuale. È esattamente il motivo della “perdita d’aureola” (del poeta, ma più in generale del letterato) che Baudelaire rappresenterà in uno dei più famosi fra i suoi famosi poemetti in prosa:

– Oh! Come! Voi qui, caro? Voi in questo luogo malfamato? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore d’ambrosia! Davvero, ne sono sorpreso!
– Mio caro, vi è noto il mio terrore dei cavalli e delle carrozze. Poc’anzi, mentre attraversavo il boulevard in gran fretta, e saltellavo nella mota, in mezzo a questo mobile caos, dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti ad un tempo, la mia aureola, ad un movimento brusco che ho fatto, m’è scivolata giù dalla testa nel fango del selciato. Non ho avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno sgradevole il perdere la mia insegna che non farmi fracassare le ossa. E poi, ho pensato, non tutto il male vien per nuocere. Ora posso andare a zonzo in incognito, commettere delle bassezze e abbandonarmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi qui, assolutamente simile a voi, come vedete!
– Dovreste almeno fare affliggere che avete smarrita codesta aureola, o farla reclamare dal commissario.
– No davvero! Qui sto bene. Voi solo mi avete ravvisato.
D’altronde, la grandezza m’annoia. E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente.
Render felice qualcuno, che piacere! E soprattutto render felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z!… Eh? che cosa buffa, sarà!…

 

Ma torniamo al racconto di Poe. L’“uomo della folla” di Poe reca nell’abbigliamento le tracce di un’antica distinzione, e, allo stesso tempo, i segni di una colpa originaria, qualcosa di oscuro che lo agita e lo tormenta nel profondo, conferendo ai suoi gesti i tratti dell’ossessione e della compulsione. Scrive a questo proposito Alberto Castoldi:

Con il racconto di Poe assistiamo ad un radicale ripensamento dell’identità del flaneur. Non è più l’attento, intelligente, ma anche garbato osservatore delle scene urbane, ma si identifica con la folla , è l’uomo che appartiene alla folla. Ed a questo punto egli si fa non tanto interprete quanto portatore delle caratteristiche della folla stessa, è l’uomo dell’era del sospetto stendhaliana, è un uomo sempre potenzialmente criminale, sull’esempio della folla rivoluzionaria, è anche l’uomo che indossa gli emblemi della propria contraddizione, il diamante simbolo di ricchezza e il pugnale, lo strumento per commettere il crimine. La folla non ha meta  né identità, è puramente pulsionale, e quando il vecchio guarda il narratore non prende nemmeno atto della sua esistenza.

Ma chi è veramente il narratore? Nell’inseguire quel vecchio spettrale, egli ne mima necessariamente gesti e atteggiamenti, percorre la medesima via, si immerge nella stessa massa indistinta di uomini. Forse, in modo rovesciato e speculare, segue le tracce di un altro protagonista di Poe, quell’William Wilson che per tutta la vita è tormentato dal suo doppio (in questo caso simbolo della coscienza in grado di frenare le pulsioni torbide e inconfessabili del protagonista), per ucciderlo infine in un drammatico duello, annientando in questo modo la parte  migliore di sé e condannandosi alla dannazione. Il vecchio, dunque, sarebbe un altro tipo di “doppio”, metafora del fondo oscuro presente in ciascuno, non più regolato dalla luce della ragione individuale ma, al contrario, esaltato dall’abbraccio mortale della folla. Narratore e vecchio, insomma, sono i due aspetti della medesima fondamentale contraddizione: da un lato la volontà di comprendere e comprendersi, dall’altro l’impossibilità tutta moderna di arrivare ad un’interpretazione organica della realtà, alla conquista di una verità che abbia anche valore morale. Al contrario la speranza di una verità in grado di redimerci  si frantuma di fronte alla rivelazione dei meccanismi ciechi, istintuali, che, al di là del fragile velo della coscienza, casomai facendosene alibi e giustificazione, guidano i nostri comportamenti.

Sappiamo che Poe è stato l’iniziatore della “detective story”. Dupin, il protagonista dei Delitti della Rue Morgue, colui che risolve l’enigma, è egli stesso un flâneur, che nell’oscurità della notte girovaga per la città alla ricerca di “quelle innumerevoli eccitazioni che la quieta osservazione può offrire”. La sua capacità analitica si applica negli angoli ciechi di un’apparente normalità che il delitto ha sconvolto e che la ragione si incarica di riportare in equilibrio. La differenza fra il romanzo investigativo classico, il “giallo” alla Sherlock Holmes per intenderci, e il noir consiste appunto in questo: se nel primo le contraddizioni del reale vengono ricomposte attraverso una logica stringente in grado di individuare chiaramente il colpevole, con un esito consolatorio per il lettore che vede confermata la sua fiducia nell’intelligibilità del mondo, nel secondo domina l’ambiguità, nessuno è mai veramente innocente, nessuno è del tutto degno di redenzione. Da questo punto di vista, L’Uomo della Folla potrebbe non essere solo la “la radiografia di una detective story”, come lo definì Benjamin, ma il punto di incontro germinale di due diverse tradizioni narrative caratteristiche della modernità, che in Poe, appunto, trovano il loro comune archetipo. Mettendo in relazione Poe e Peirce, Nancy Harrowitz a questo proposito scrive:

In sintesi, c’è una serie di interessi simili nel pensiero di Poe e di Peirce. Questi sono, parlando a grandi linee, indagini sul metodo della mente, sulla definizione di ragione, su ciò che giace oltre la ragione, sulla topologia dei confini dell’istinto, su come si acquisisce nuova conoscenza, sulla relazione tra intuizione e ragione […]. Nelle domande che Poe e Peirce si pongono c’è un movimento piuttosto diretto verso la mistica. Quando i sogni profetici e l’intuizione sono inclusi nel regno dell’esperienza da cui è generata la nuova conoscenza, vuol dire che si stanno prendendo in considerazione possibilità epistemologiche che hanno un campo molto più ampio del solito.

www-650x245Oggi la folla ha assunto nuove, impreviste caratteristiche. Visto che la nostra vita è sempre più “vita digitale”, anche questa dimensione si è popolata di una folla telematica che sciama per i nodi della Rete, si accalca nei social network, ingombra le agorà internettiane: un enorme brusio digitale che talvolta diventa urlo collettivo, insulto condiviso, rissa per interposta tastiera. Sempre più spesso siamo “insieme ma soli” (per citare il titolo di un fortunato saggio di Sherry Turkle): alle prese con i nostri innumerevoli gadget tecnologici, non sempre siamo in grado di gestire la nostra presenza in Rete con la necessaria consapevolezza. Al contrario, la meccanicità dei gesti che garantiscono l’apparente spontaneità delle nostre interazioni (la rapida digitazione sulla tastiera virtuale di uno smartphone o un tablet, la facilità con cui si possono distribuire i “mi piace” o condividere frammenti più o meno importanti della nostra vita, la superficialità della lettura a video) favorisce il contagio del conformismo, la reazione impulsiva, la risposta puramente emotiva che spesso tracima in un’escalation di sconcertante violenza verbale, che si alimenta da un lato con la percezione confusa che ciascuno di noi ha della propria irrilevanza, dall’altro con la presunzione di impunità che l’uso del medium tecnologico sembra garantire. Quello che non urleremmo mai nella piazza principale della nostra città, non ci vergogniamo di scriverlo a lettere maiuscole nello spazio della nostra pubblica o semipubblica bacheca di Facebook o nella fila interminabile di commenti in coda al post di qualche VIP più o meno inviso (ma anche di qualche sconosciuto/a che abbia avuto la disavventura di attirare la malevolenza di internauti incapaci di autocontrollo). Come l’Uomo della Folla di Poe non siamo in grado di tollerare la nostra solitudine in Rete e cerchiamo il sostegno del gruppo, gruppo che non di rado si trasforma in branco: perché, purtroppo, in Rete non si condividono solo informazioni, conoscenze o emozioni, ma anche, sempre più spesso, la violenza, che, per il fatto di essere fatta di parole, piuttosto che concretamente agita, non cessa di essere comunque violenza. Rispetto alla massa oscura e informe di esseri umani che popola fisicamente le nostre metropoli, la folla telematica è altrettanto cieca e le sue pulsioni altrettanto irrazionali, potenzialmente criminali. Non siamo molto lontani da Poe, come si vede.

E dunque? Appare sempre più necessario riscattare la Rete da questa deriva. Certo, Internet non è, di per sé, il Male: è, evidentemente, lo specchio delle nostre contraddizioni e frustrazioni ma il riflesso che ne risulta spesso è amplificato fino ad essere intollerabile.  Quello che una volta era semplice chiacchiera di paese o commento da bar assume per le vittime l’aspetto di una gogna mediatica potenzialmente inarrestabile, non mediata, non arginabile.  Questo è il punto, troppo spesso dimenticato da chi, in nome delle magnifiche sorti e progressive evocate dall’utopia libertaria di una piena e consapevole cittadinanza digitale, in questa visione irenica e fondamentalmente miope, tende a sminuire fenomeni come, ad esempio,  hate speech o cyberbullismo. Dall’altro lato, la generica demonizzazione (spesso interessata) della vita digitale finisce per essere usata dai centri di potere come grimaldello per ottenere altri scopi: controllo, manipolazione, censura.

Dobbiamo necessariamente chiederci se nei labirinti confusi delle nostre città, ma anche negli incroci dell’ipermetropoli digitale, popolati da una folla senza più storia e memoria, sia possibile ancora il gesto umanistico di redenzione individuale al quale accennava Seneca:

Da nulla bisogna infatti guardarsi di più che dal seguire il flusso della folla, perché tale scelta ci porta ad andare non dove bisogna, ma dove vanno gli altri, pensando che le cose accettate dai più siano le migliori. Accade infatti nella vita ciò che accade quando una grande folla di persone è travolta dal panico e gli uni cadono sugli altri; chi sbaglia non sbaglia solo per sé e il suo errore ricade sugli altri, cosicché credendo all’opinione dei più, rinunciamo a esprimere la nostra capacità di giudizio e siamo travolti. Pertanto faremmo bene a staccarci dalla folla e a esprimere valutazioni e scelte autonome e indipendenti. I giudizi si devono dare non secondo quello che dicono i più, ma usando la propria testa. (De Vita Beata I  trad. Roberto Centi).

I filosofi antichi proponevano come soluzione possibile la pratica dell’autarkeìa, l’autosufficienza interiore fondata sulla personale ricerca della felicità basata sulla saggezza (eudaimonìa). Oggi la complessità nella quale siamo immersi rende velleitaria la rivolta individuale e solipsistica, a meno di non condannarsi alla marginalità sociale e culturale. Ma allora diventa indispensabile non rifiutare come potenzialmente mortale l’abbraccio della folla, reale o digitale che sia, ma, al contrario, ricercarlo, sperimentarlo, osservarlo, studiarlo. Praticare un nuovo tipo di flânerie, un rischioso equilibrio fra evitamento e coinvolgimento diretto, una passeggiata sul margine slabbrato che separa e, al tempo stesso, congiunge pratiche antiche e nuove, la Rete e tutto quello che, ancora, ne resta fuori.

Lo scopo di questo esercizio di calcolato straniamento? La riconquista di uno sguardo ispirato dalla pietas nei confronti del prossimo, per sfuggire alla tentazione di vedere negli altri solo i gesti meccanici dettati dalle maschere sociali. Buoni e cattivi, carnefici e vittime, integrati ed emarginati, intelligenti e stupidi, folli e sani, giovani e vecchi, nativi o immigrati o esclusi digitali, chi è “dentro” e chi viene sospinto “fuori”, non visto, non accolto, non compreso: occorre sottrarsi alle dicotomie troppo facili, all’alternativa secca fra giustificazione e rifiuto, e recuperare la consapevolezza della comune umanità. Imparare a distinguere nella folla i singoli volti, ricordarsi che dietro ogni gesto stereotipato, ogni manifestazione di  piatto conformismo, ogni collettiva mascherata esiste l’irriducibile individualità di ciascuno. Che l’Uomo della Folla di Poe è, in definitiva, solo un’astrazione, una mera allegoria, uno spettro: quello che dovremmo inseguire, al contrario, è l’Uomo nella Folla, perché ogni folla è composta di uomini, e nessuna storia è mai esattamente uguale ad un’altra. Dovremmo indagare lo scarto e la differenza, non fissarci sulla regolarità e l’uniformità.

Non so vedere nessun altro strumento per riconquistare questa consapevolezza se non la letteratura. Perché solo lo sguardo della letteratura è in grado di farsi carico della complessità e di coniugare l’eccezione con l’universale. Bisogna sottolineare che Il tempo della lettura, a differenza di quello imposto da altre forme, peraltro non meno nobili, di arte (come il cinema o la canzone) non è eterodiretto:  obbedisce al ritmo liberamente scelto da ciascun fruitore, si adatta alle accelerazioni e alle pause  dell’attenzione, può interrompersi e riprendere, alternare la smania eccitata alla lentezza della meditazione e dell’approfondimento. Possiamo passeggiare fra le pagine, correre, cambiare direzione, sostare, tornare indietro, proseguire, cambiare strada, scoprire strade secondarie, incroci nascosti che ci conducono verso altre storie, altri paesaggi. Non è vero, e ciascun lettore “forte” lo sa per esperienza diretta, che la lettura sia un’esperienza passiva, e nemmeno che essa sia necessariamente sequenziale. Nel bel saggio “L’Ombra di Ulisse”, Piero Boitani delinea con efficacia i tratti del “lettore impuro” come quelli di una sorta di flâneur dell’interpretazione:

L’interpretazione è allo stesso tempo “infinita” e “limitata”. Essa cresce con la comprensione che ciascuno acquista nella vita e nella lettura meditando – in un processo di ri-conoscimento – il proprio desiderio nella coscienza. Poiché tale crescita è potenzialmente senza fine nell’esistenza individuale e in quella storica dell’umanità, l’interpretazione non ha, in potenza, alcun termine. Essa ha tuttavia dei limiti: nel testo e nella sua trama linguistica, nel contesto che la circonda, nell’”intenzione dell’opera”. Vedremo infatti che una delle possibili conclusioni di questo libro sarà il silenzio dell’interprete. Ad indicare tuttavia l’infinita potenzialità della lettura si suggeriscono altri quattro esiti: il riso, l’orrore, la parola e l’enigma.

 

E poco dopo si precisa:

 

Dopo aver  prestato attenzione alla retorica nel capitolo precedente, viriamo di nuovo (con un passaggio, come si vedrà intermedio) verso la poesia. Ed è qui che il lettore si accorge di essere non solamente obliquo, ma anche impuro. Non solo egli scavalca con disinvoltura e leggerezza i canoni stabiliti dalla tradizione, balzando da un ramo all’altro degli alberi genealogici, ma coscientemente insidia  con imprevedibili intuizioni estetiche la confortevole sicurezza dell’indagine storicistica. Attraversa lo spazio e il tempo con un desiderio inquieto e impaziente, abbandonando in parte il rigore faticoso della filologia, consapevolmente sbirciando avanti e dietro le proprie spalle verso le ombre che sente attorno a sé.

 Tutto questo può apparire, necessariamente, utopico, troppo complesso e persino fuori tema rispetto alla questione che, obliquamente, qui si cerca di affrontare. Una soluzione impossibile, addirittura ridicola: leggere  buoni romanzi per rispondere alla deriva etica, prima ancora che culturale, che gli apocalittici paventano e denunciano, gli integrati sminuiscono e negano, tutti gli altri un po’ temono, un po’ incoraggiano e condividono.   

Il fatto è che non se ne può più di luoghi comuni: sia di  quelli che rimpiangono il buon tempo antico (non tornerà, rassegniamoci, e probabilmente, così come lo rievochiamo nelle nostre idealizzazioni, non è mai esistito), sia di coloro che plaudono alla futuristica bellezza della Rete, ripetendo stancamente (specialmente in Italia,  dove restiamo sempre un po’ indietro rispetto agli altrui dibattiti) gli slogan entusiasti che accompagnavano, qualche anno fa, la scoperta della nuova dimensione digitale. Ed è normale: chi ha scommesso la sua carriera (accademica, giornalistica, politica, etc) sulle supposte virtù taumaturgiche dell’intelligenza connettiva/collettiva, non è così disposto a tornare indietro per ammettere apertamente le opacità e i rischi che accompagnano l’irrompere in Rete di masse scarsamente consapevoli e, di fatto, molto manipolabili, che casomai condividono forme sconfortanti di collettiva idiozia.

Ma noialtri, che non vogliamo gettare il bambino con l’acqua sporca, che ci sforziamo di costruire ponti fra il passato il presente e il futuro, che conserviamo gelosamente i nostri libri di carta ma, al tempo stesso,  ingombriamo tablet e computer con giga e giga di ebook, che aggiorniamo quotidianamente i nostri profili social, ma ogni tanto spegniamo tutto e sprofondiamo nell’invisibilità, immigrati o tardivi digitali che dir si voglia, gente che ha conosciuto altro, che sa ancora sfogliare le pagine ma né si spaventa né si esalta davanti a un touch screen,   abbiamo comunque un’occasione: uscire dal recinto nel quale una certa retorica ci vuole rinchiudere  e disseminare i germi della nostra personale rivolta. Come i flâneur di una volta, passeggiamo, a volte, portando a guinzaglio una tartaruga, ma siamo capaci, se necessario, di prendere il nostro animaletto in braccio e di correre più veloci di molti altri.

flaneurgrey-web

 

Bibliografia minima

Benjamin, Walter, and Fabrizio Desideri. 2007. Angelus Novus: saggi e frammenti. Torino: Einaudi.
Boitani, Piero. 2012. L’ombra di Ulisse: figure di un mito. Bologna: Il mulino.
Castoldi, Alberto. 2013. Il flâneur: viaggio al cuore della modernità. Milano: B. Mondadori.
Eco, Umberto, Thomas A. Sebeok, U. Eco, T. A. Sebeok, and G. Proni. 2012. Il segno dei tre: Holmes, Dupin, Peirce. Bompiani.
Turkle, Sherry. 2013. Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other. [s.l.]: Basic Books.
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Una risposta a Proposta di «flânerie» digitale (e non solo), per uscire dai luoghi comuni.

  1. Giorgio Jannis scrive:

    Mancavi

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