Ritrovare la voce

paroleSi può raccontare davvero la propria storia in questo contenitore? Potrei inanellare una serie di belle frasi ad effetto per narrare come e perché sono diventata quello che sono. Sono sempre stata brava con le parole, sin da quando, ben prima di mettere piede in un’aula scolastica, ho imparato a leggere e a scrivere. E questo talento è stato il mio guaio.

“Ma come scrive bene, questa bimba”. Ma che grande dono, ma che frasi poetiche, ma che profondità di pensiero. Però nessuno leggeva davvero quello che andavo scribacchiando. Attorno a me un trionfo di lodi, di complimenti e di esclamazioni stupite. Ma nelle mie poesie infantili (credo di aver scritto le prime intorno ai sei anni) c’erano i segni di un malessere che nessuno coglieva: perché, forse, lo raccontavo troppo bene. Prevedibilmente, sono sempre stata la prima della classe e naturalmente destinata al liceo classico. Mia madre mi sognava scrittrice. Scrittrice e medico, per l’esattezza. E invece.

Intorno ai quindici anni, ho buttato all’aria belle speranze e buone intenzioni. A ripensarci, credo che nei miei contorti propositi si trattasse di una provocazione. Perché i primi della classe non se la passano poi così bene. Non sono un problema, per gli adulti. Sono così bravi da diventare invisibili. Nessuno li ascolta: casomai li vezzeggiano, li adulano, li premiano. Ma starli seriamente a sentire … è un’altra storia. E i coetanei li odiano, magari a ragione, perché i primi della classe sono saccenti e odiosi per definizione. Io avevo questa urgenza, questa voglia di trovarmi, e di trovare gli altri, che mi sfuggivano, ai quali sfuggivo. “Farò lettere”,  annunciai. In famiglia smorfie di disappunto accolsero il fiero proposito. Mia madre si arrese, alla fine. Mi impose, tuttavia, l’esame per entrare in Normale. Non ce la feci per un pelo. Meglio così. Comunque, strana, bizzarra rivolta quella che sceglie il greco antico come guanto di sfida.

Sì, sono diventata prof, e prof di lettere, perché sentivo di aver dentro un mondo, alimentato da letture voraci, per lo più extrascolastiche, e ansie inconfessate, che in qualche modo volevo comunicare. Se avessi fatto altro (medicina, appunto, come da programma) avrei dovuto mettere da parte i miei letterari furori: altro che novella Cronin, come mi immaginavano in famiglia. Mi raccontavo, nobilmente atteggiata, che sarei voluta diventare l’insegnante che non avevo incontrato sulla mia strada di studentessa. Balle. Magari volevo solo far arrabbiare mia madre, maestra elementare, per la quale i prof di lettere erano pedanti incurabili, aridi eruditi privi di fantasia, parassiti della creatività altrui: mediocri. E sua figlia, la sua eccezionale, dotatissima figlia, quello voleva fare. Che schifo, che spreco. Io, d’altro canto, ho passato un bel pezzo della mia vita a far incazzare mamma e poi a cercare il modo di rappacificarmi con lei: come tutti gli adulti mancati, del resto.

Ma, chissà, la verità è un’altra. Dubitavo di me, di essere all’altezza dei sogni grandiosi che qualcuno aveva fatto alle mie spalle. E poi è stato più facile così: ho fatto tutto di corsa. A ventidue anni ero laureata con lode, a venticinque già insegnante di ruolo alle medie, a ventisei in cattedra, come vincitrice di concorso, nel liceo che avevo frequentato da studentessa: e lì sono rimasta. Il preside (che mi aveva conosciuto da alunna e al quale sono sempre stata cordialmente antipatica) disse a qualcuno che avevo l’atteggiamento supponente da prima della classe. Ma tu guarda. So che qualcuno lo pensa ancora.  Mummificata bella promessa di un destino che non si può più realizzare. Prima della classe per sempre.

Poteva andarmi peggio. Poteva andarmi peggio?

 
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