“Salò” di Pier Paolo Pasolini, una provocazione sempre attuale.

 

[Una settimana fa, ho partecipato all’iniziativa “Si parla tanto di poesia – 3° edizione” presso la Libreria Coop. L’incontro, organizzato da Marco Formaioni,  si è diviso in due parti: la prima verteva sulla poesia di Giorgio Caproni (a cura del professor Davide Puccini), la seconda, indegnamente curata dalla sottoscritta,  sulla poetica di  “Salò” di Pier Paolo Pasolini.  Questo, per chi interessa,  è il testo del mio intervento su Pasolini]

 

Che cosa ci disturba, davvero, in un film così estremo come “Salò”? Avanzo un’ipotesi: quello che ci infastidisce e ci disgusta non è tanto la rappresentazione esplicita della perversione, ma il fatto che sia stato un “intellettuale”, qualunque cosa  questa definizione voglia dire per noi (e abbia voluto dire per Pasolini: non è detto che i due significati coincidano), ad assumerla e a recuperarla come metafora dell’oggi nel recinto della cultura: e con questo gesto violando appunto  la scontata (e impotente) sacralità assegnata  alla cultura dal perbenismo indifferente del senso comune.

 

La rappresentazione esplicita della perversione non può scandalizzarci in sé,  se non altro perché oggi, rispetto al 1975, i media ci hanno assuefatto alla “normalità” della trasgressione, disinnescandone al tempo stesso la carica eversiva e riportandola, come del resto Pasolini aveva previsto, nell’ambito rassicurante della omologazione consumistica: penso ad esempio al servizio trasmesso qualche giorno fa dalle Iene a proposito dell’industria del porno e dei suoi protagonisti made in USA, una serie di immagini abbastanza esplicite (con dichiarate propensioni sadomaso) che nella loro pretesa documentaristica rimandano ad originali (facilmente reperibili in Rete) ovviamente assai più hard; penso al documentario della Zanardo “Il Corpo delle Donne” che ci sbatte in faccia la consolidata abitudine e indifferenza dello spettatore medio di fronte alla rappresentazione degradata e disumanizzata del corpo femminile, asservito ad una concezione piattamente consumistica della sessualità, sottratta al regno della vita per essere consegnato al suo mortifero destino di merce fra altre merci; penso a film apparentemente “estremi”, di denuncia o impegno, tipo Shame o Cosmopolis, che tuttavia non si sottraggono ai meccanismi abituali dell’industria culturale che da un lato vuole, come dire, épater le bourgeois, dall’altro, ovviamente, ne solletica le voglie e la malizia tipicamente piccolo borghese. con l’alibi dell’operazione “culturale”; penso alla miniserie televisiva Black Mirror, che nel primo episodio narra la pubblica umiliazione del primo ministro inglese, costretto da un misterioso ricattatore a fottere un maiale in diretta televisiva davanti a milioni di persone, e che da questa umiliazione estrema ricava alla fine un maggior grado di consenso (e quindi di Potere) sebbene perda se stesso; penso alle grottesche esternazioni del nostro italico Nerone, ai resoconti boccacceschi delle ormai famose “cene eleganti” in quel di Arcore che sembrano mimare in chiave minore e parodistica (una specie di parodia della parodia) le pratiche sadomasochistiche cupamente funeree dei quattro protagonisti di Salò.

 

Com’è noto, Salò si propone come una riflessione sull’oscenità naturalmente insita nei meccanismi di potere e di dominio. L’idea che il potere sia intrinsecamente cattivo ha cominciato a diffondersi parallelamente alla democratizzazione (apparente) dello spazio pubblico. Scrive Carl Schmitt a questo proposito: “Credo che nell’ultimo secolo l’essenza del poter umano ci si sia svelata in modo del tutto particolare. E’ strano infatti che la tesi del potere cattivo abbia iniziato a diffondersi proprio a partire dal XIX secolo. Noi eravamo giunti alla conclusione che il problema del potere sarebbe risolto, o comunque appianato, in virtù del fatto che esso non deriva né da Dio né dalla natura, bensì è qualcosa che gli uomini stabiliscono tra di loro? Di che cosa mai dovrebbe avere ancora paura l’uomo, se Dio è morto e il lupo non spaventa più nemmeno un bambino? Eppure, esattamente a partire dall’epoca in cui sembra compiersi questa umanizzazione del potere – cioè dalla Rivoluzione Francese – si diffonde irresistibilmente l’idea che il potere sia in sé cattivo. Il detto “Dio è morto” e l’altro “Il potere è in sé cattivo” nascono nel medesimo tempo e dalla medesima situazione. E in fondo significano la stessa cosa”.  Ovvero nel momento in cui il potere tenta di giustificarsi non più come fenomeno naturale o forma di investitura divina, ma attraverso il consenso intersoggettivo che lo produrrebbe (anche se, al tempo stesso, in quanto potere, ha la capacità di generare il consenso che lo mantiene, in un circolo vizioso che non sembra facile interrompere), agli occhi di molti mostra la sua faccia demoniaca e l’arbitrarietà delle sue pretese.

Con la medesima tempistica storica, non a caso, muta la percezione della crudeltà. Il nostro sguardo occidentale, ad esempio, non sarebbe più disposto a sostenere lo spettacolo reale  di un supplizio estremo come l’esecuzione di Damiens, avvenuta il 28 marzo 1757 in Place de la Grève a Parigi. Ne parla diffusamente Alessandro Dal Lago nel suo recente “Carnefici e Spettatori”, riportando fra l’altro la descrizione raccapricciante presente in un famoso testo teatrale di Peter Weiss.

Torace braccia e cosce gli furono squarciati, nelle ferite gli fu versato piombo fuso, lo cosparsero di olio bollente pece infuocata cera e zolfo, la mano gli fu bruciata via, alle sue membra legarono funi, quattro cavalli attaccati e frustati per un’ora non usi al nuovo compito, e non lo spaccarono, fino a che lo segarono alle spalle e ai fianchi, così perdette il primo braccio e poi il secondo. Lui stava a vedere quello che gli facevano e poi si volse verso di noi, riuscendo a far udire la sua voce. E quando gli strapparono la prima gamba e poi la seconda, era vivo ancora ma la sua voce s’era fatta più fioca. E infine pendette lì un tronco sanguinolento con il capo cionco. Ormai gemeva soltanto e guardava a occhi sbarrati il crocifisso che gli porgeva il confessore”.

L’efferatezza del supplizio ovviamente ci impressiona. Eppure pare proprio che nessuno dei contemporanei fosse più di tanto scandalizzato dalla disumanità dell’evento: lo stesso Voltaire, che “pure conduceva da anni un’aspra polemica contro la tortura e le esecuzioni capitali, non mostra una particolare riprovazione per il supplizio di Damiens, quando una decina d’anni dopo ne dà un sintetico resoconto”. (Dal Lago, pag 71). Per non parlare di Casanova, che assiste al supplizio assieme a due allegre signore e a un suo compagno di bisboccia da un appartamento affittato appositamente e che trascorre le quattro ore dell’agonia di Damiens impegnato in approcci galanti più che espliciti con le dame (le quali, nonostante la piacevole distrazione, restavano ostinatamente affacciate alla finestra per non perdersi nemmeno un particolare).

Ma da un certo momento in poi, secondo l’analisi di Dal Lago, la spettacolarizzazione di una giustizia crudele ma necessaria (almeno nell’ottica di un’espiazione sacrificale che sancisse la sacralità del potere che la esercitava), cede il posto al nascondimento, alla “privatizzazione” e apparente “de-erotizzazione”della punizione: “oggi – scrive Dal Lago – si suppone che i parenti di una vittima che assistono all’esecuzione di un omicida non godano dello spettacolo, ma testimonino esclusivamente, con la loro presenza, l’avvenuta retribuzione del crimine”. La situazione, in realtà, è assai più complessa. Come scrive Dal Lago,  “il mondo secolare traveste la sua violenza nelle forme della “legge”, della “giustizia” e della “sicurezza”. Al punto che è capace di fare la guerra senza che i suoi abitanti, tutto sommato, ne siano consapevoli o l’avvertano nella loro vita quotidiana”. La società si vergogna della sua crudeltà reale, quella che davvero si dispiega nella storia,  e non esita a rimuoverla dallo sguardo o a scandalizzarsi se essa casualmente sfugge alla censura (Abu Ghraib): ma al tempo stesso non rinuncia a spostare in avanti l’asticella della rappresentazione finzionale, offrendo agli spettatori la loro dose quotidiana di sangue, sesso e sado-masochismo, in nome della libertà di espressione e della ormai universalmente ammessa licenza alla perversione virtuale. Eppure non si tratta di libertà: in realtà è soltanto una sottile ipocrisia che ammette la fiction ma nega ed edulcora la verità.

Ecco perché Salò scandalizza e disturba ancora. Perché la  “mostruosità” dei suoi protagonisti in realtà rimanda alla nostra apparente normalità e ne è l’evidente metafora: seduti nelle nostre comode poltrone, nei nostri salotti apparentemente protetti, come i quattro signori di Salò assistiamo con gusto voyeuristico alla riproduzione mediatica della violenza e della crudeltà in televisione e in Rete, ovvero nel recinto innocuo della fiction, del cinema, del resoconto giornalistico, ottundendo progressivamente la nostra capacità di reagire e compatire. Al tempo stesso la perversione della nostra immaginazione colonizzata dal potere mediatico si trasforma in un piacere da drogati, per i quali la dose di crudeltà virtuale deve via via aumentare per garantire la desiderata scossa adrenalinica. Ma ufficialmente non saremmo disposti ad ammettere che in questo complesso e contraddittorio meccanismo di rimozione e, al tempo stesso, accettazione dell’immagine del male si nasconda non la malattia di chi ce lo sbatte in faccia ma, al contrario, la patologia del nostro modo di relazionarci con noi stessi, con gli altri, con i meccanismi di dominio sociale.

 

Pasolini ha perseguito coscientemente e lucidamente la provocazione. Salò non è, come pure qualche critico ha preteso, il segno della sua disperata “follia”, ma l’analisi spietata della nostra. E’ il gesto estremo (assieme all’ultimo romanzo Petrolio) di un intellettuale che voleva farla finita con il gioco autoreferenziale della letteratura e dell’arte come recinto protetto e “autonomo” rispetto all’urgenza della storia: un intellettuale che, al contrario, rivendicava per sé il dovere della lotta e si incaricava di una disperata testimonianza “contro”, respingendo non tanto l’idea di progresso, quanto la sua banalizzazione come  sviluppo “felice” del tardocapitalismo e come spinta alla colonizzazione e all’omologazione mercantilistiche delle coscienze e dei corpi.

Bibliografia essenziale

Carla Benedetti, Giovanni Giovannetti, Frocio e basta. Sacra follia? Pasolini, Cefis, Petrolio. Così muore un poeta. Milano, 2012

Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura. Torino, 1998

Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, a cura di Lorenzo Pellizzari, Venezia, 1977, 1994

Enzo Siciliano, Vita di Pasolini,  Milano,  2005

Carl Schmitt, Dialogo sul potere, MIlano, 2012 (Stuttgart, 1994 2008, Berlin, 1995)

Alessandro Dal Lago, Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà. Milano, 2012

 

 

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