Una volta, a scuola, c’era il tema (e forse c’è ancora)

La notizia non è nuovissima. La pubblicazione del rapporto Invalsi sulle competenze degli studenti italiani nell’uso dell’italiano scritto, rapporto basato sull’analisi di un campione significativo di prove (499) svolte durante gli Esami di Stato 2009 – 2010, ha suscitato una serie di reazioni, fra il perplesso e lo sconcertato, ben esemplificate nell’opinione espressa da Mario Pirani nella sua rubrica “Linea di Confine” del 26 marzo scorso (Esiste nella Scuola la Questione Morale?). Invito chi si occupa professionalmente di educazione a leggersi per intero il rapporto Invalsi (confrontandolo magari con quelli precedenti), senza basarsi più di tanto sulle inevitabili generalizzazione giornalistiche (alcune molto superficialii, altre sicuramente più argomentate) che, ovviamente, colgono solo in parte la natura reale del problema.

Vorrei fare un po’ di storia. E’ dal 1997 che l’Esame non si chiama più di “Maturità” ma di “Stato”, una distinzione lessicale che fu presentata come un cambiamento radicale di merito e di metodo: non si sarebbe più trattato di accertare una generico livello di “maturità”, nozione che implica in qualche modo un giudizio di tipo morale, inevitabilmente soggettivo, ma di esprimere una valutazione più tecnica, relativa alle effettive competenze raggiunte dagli studenti al termine del ciclo di studi secondario. Da qui derivò anche una sostanziale riforma della fisionomia della prima prova scritta: non più il tema tradizionale, esercizio retorico senza nessun tipo di aggancio con la realtà, “genere letterario” paradossale in vigore soltanto nel chiuso e autoreferenziale universo scolastico, ma forme di scrittura che accertassero realmente le abilità comunicative, di analisi e sintesi, conseguite dagli alunni. Quindi “analisi del testo” (articolata in tre parti, comprensione, analisi, interpretazione complessiva e approfondimenti) e “saggio breve o articolo di giornale”, ovvero forme di scrittura documentata, basate su un dossier di fonti eterogenee (passi letterari, brani di saggi o articoli, fonti iconografiche, persino, in qualche caso, testi di canzoni, ) fornito a corredo della prova, ed eventualmente sulle informazioni già in possesso del ragazzo. Il saggio breve e l’articolo di giornale sono poi sottoposti ad ulteriori vincoli: l’individuazione di un destinatario (che determina la scelta di un opportuno registro linguistico), la lunghezza (non più di quattro, cinque colonne di foglio protocollo), l’attribuzione di un titolo appropriato. Al tema tradizionale (di storia o di argomento generale) viene riservato uno spazio ridotto: due tracce su sette possibili scelte (la tipologia B – saggio o articolo – viene infatti declinata in quattro ambiti diversi: artistico – letterario, socio – economico, storico – politico, tecnico – scientifico). Naturalmente gli organi di informazione hanno bellamente ignorato nel corso degli anni tutti questi cambiamenti: si continua a parlare di “maturità” (vedi ad esempio, qui, il Corriere della Sera sul cosiddetto “plico telematico”),  si continua a parlare di “temi“: e le parole, come ci insegna appunto  il dottissimo rapporto Invalsi, hanno un loro peso specifico.

La riforma doveva innescare un cambiamento radicale nella didattica della lingua scritta: la complessità oggettiva della prova finale (teniamo conto che la maggior parte degli studenti si orienta sulla tipologia B, se non altro perché la presenza di documenti genera l’illusione che comunque si eviterà il panico da “pagina bianca”) – prova che comporta (o dovrebbe comportare) un’analisi attenta del dossier, una selezione delle informazioni pertinenti, la costruzione di un’indice (o scaletta) possibile, l’argomentazione motivata di una tesi, il controllo sulla scelta del registro linguistico più appropriato nonché sulla complessiva correttezza formale dell’elaborato – impone per sua natura una costruzione attenta di un curriculum specifico ( e, aggiungo, con valenza interdisciplinare) di scrittura nel corso dell’intero arco di studi superiori. Sulla base della mia esperienza, posso dire che, in linea di massima, il cambiamento nella prassi didattica è stato frammentario e complessivamente insufficiente.

Prima di tutto sembra coinvolgere soltanto il triennio (in certi casi solo l’ultimo anno, in previsione dell’esame). In secondo luogo ci si limita ad “esercitare” i ragazzi fornendo loro le tracce degli anni precedenti e lasciando che se la cavino da soli, come sanno e come possono (d’altra parte la costruzione di prove originali ad hoc è lunga e laboriosa: occorre individuare l’argomento, reperire le fonti, costruire in modo coerente il dossier, tener conto della diversità degli ambiti – e quindi il docente di italiano dovrebbe essere coadiuvato anche dai colleghi di altre discipline, a meno che non si pretenda – come spesso avviene, che si travesta impropriamente da tuttologo). In terzo luogo quasi sempre il professore è , appunto, un professore, e non un giornalista, un accademico, uno scrittore, un saggista: quindi anche la sua competenza in rapporto alle regole che presiedono alle diverse strategie comunicative implicate dalle varie tipologie testuali lascia abbastanza a desiderare (tanto più che la maggior parte dei professori non sono giovanissimi e si sono formati sulla vecchia retorica del tema tradizionale). Il risultato? Ci si è arrangiati: e, alla fine, i “saggi brevi” e gli “articoli di giornale” prodotti dai candidati durante le prove di esame sono soltanto compitini scolastici, nel migliore dei casi elaborati generici (come e più del tema tradizionale) abbastanza corretti dal punto di vista morfosintattico e ortografico, nel peggiore collage di citazioni confuse tirate fuori in qualche modo dal dossier a disposizione.

Vorrei fare un’ulteriore osservazione. Prendiamo, ad esempio, la traccia relativa all’ambito artistico – letterario proposta nel corso dell’esame 2009 – 2010 (quello oggetto dell’indagine Invalsi: se avete tempo e voglia leggetele tutte): l’argomento era “Piacere e piaceri”, i documenti consistevano in un brano dal “Piacere”  di D’Annunzio, tre riproduzione di quadri (Botticelli, Picasso, Matisse), versi di Leopardi, Ungaretti, Brecht, una citazione di due righe dai “Quaderni di Metafisica” di Andrea Emo, un passo un po’ più lungo di Paolo Mantegazza. Va bene: è scandaloso che qualcuno scriva che Leopardi è un autore del Settecento (questa è una delle mostruosità citate dagli articoli di giornale che hanno riportato i risultati desolanti del rapporto Invalsi), ma francamente vorrei sapere quanti fra gli illustri commentatori che si stracciano le vesti sulle scarse competenze linguistiche e argomentative dei ragazzi italiani, sanno con apprezzabile sicurezza chi erano rispettivamente Andrea Emo (i cui scritti, fino a quel momento inediti,  sono stati diffusi a partire dal 1986 per merito di Massimo Cacciari) o Paolo Mantegazza, relativamente più noto ma in un contesto sicuramente specialistico. Non parliamo dell’ambito tecnico scientifico, argomento “Siamo soli?”, (banalmente parafrasato dalle fonti di informazione come “tema sugli UFO”), testi di Steven J.Dick, Pippo Battaglia e  Walter Ferreri, Immanuel Kant, Stephen Hawking, C.W.Davies. Qualche nome noto (anche scolasticamente, vedi Kant), accanto a signori per lo più sconosciuti anche ai docenti: che le trattazioni dei ragazzi si siano di fatto trasformate in pessime parodie di Voyager francamente non mi meraviglia. La citazione fuori contesto (se il contesto è ignoto) è pericolosissima, perché si rischia di far dire agli autori cose ben diverse da quello che intendevano: i ragazzi lo sanno e, dunque, restano sul vago, tanto più che hanno a disposizione solo lo spazio di quattro-cinque colonne (e così fanno un piacere anche ai docenti che non è detto conoscano tutti gli autori citati). Francamente (e un po’ malignamente) vorrei vedere alle prese con consegne di questo genere tutti i Catoni che si sconvolgono davanti a certi pessimi risultati.

Detto questo, il problema è reale, aggravato almeno da due ulteriori fattori. Prima di tutto il background culturale di questi adolescenti è quello che è: non sto a ribadire i dati, l’ho già fatto in altro contesto, ma è dimostrato che gli Italiani sono un popolo di ignoranti, in bilico perenne sulla soglia dell’analfabetismo funzionale, gente la cui formazione culturale in senso lato è delegata in linea di massima ad una pessima televisione, mentre il libro è un illustre sconosciuto nella maggior parte delle famiglie (i dati ai quali rimando, non a caso, sono del 2009, coerenti dunque con la data della rilevazione Invalsi). In secondo luogo, a mio avviso, una volta preso atto della situazione, non ci si interroga a sufficienza sul fallimento dello sforzo di riforma: se a distanza di quindici anni rispetto a quella che doveva essere una “rivoluzione copernicana” nella didattica dell’italiano, siamo sempre qui a ragionare sugli strafalcioni diffusi fra la popolazione studentesca, è evidente che qualcosa non ha funzionato, e chi predica la cultura della valutazione di sistema, dovrebbe valutare, magari con un minimo di autocritica,  anche le ragioni di questa sconfortante débacle (aggiungo che magari le tracce via via proposte nel corso degli anni presentavano spesso evidenti problemi di formulazione. Ma su questo mi riservo di scrivere altrove)

I docenti della mia generazione si sono drammaticamente scontrati con una serie di trasformazioni, riforme abortite, salti in avanti e precipitosi ritorni all’indietro che hanno sì mutato la fisionomia della scuola ma in modo poco coerente, episodico, frammentario: è vero in generale, è vero nel quadro del problema specifico che questo post sta affrontando. E qui tocco la terza ragione di perplessità: mentre si lamenta la mancanza di senso critico, di capacità argomentativa, di logica testuale e competenza grammaticale, lessicale, ideativa degli studenti italiani, attraverso la diffusione forzata  dei test di valutazione Invalsi si impone di fatto un modello di conoscenza a senso unico, nozionistico nel senso più deteriore del termine (devo dirlo? a me i test Invalsi ricordano gli esami di teoria per la patente), senza contare il vulnus fatale all’autonomia scolastica e, di fatto, alla libertà di insegnamento. I rischi presentati dall’inevitabile degrado dell’insegnamento, qualora lo si trasformi un mero allenamento alla risoluzione di test buoni al massimo per misurare competenze minimali, sono stati ottimamente illustrati a suo tempo da Giorgio Israel, sulla scorta di un’ adeguata documentazione internazionale. Ma contro certi fondamentalismi valutativi è impossibile argomentare con qualche possibilità di successo. E il professore, ridotto al rango di “somministratore” o “facilitatore passacarte di valutazioni e di metodologie didattiche confezionate da “esperti” sulla cui mai valutata competenza è meglio stendere un velo pietoso”, secondo la calzante definizione di Israel, tristemente si adegua.

De hoc satis. Tuttavia, in relazione al tema centrale del mio post, voglio solo segnalare una contraddizione evidente: in tre o quattro ore settimanali di lezione, davanti a classi di trenta o più studenti, spesso frutto di accorpamenti selvaggi dovuti al taglio delle cattedre per motivi economici (senza contare l’erosione massiccia di quello che un tempo era ritenuta un valore, ovvero la continuità didattica, messa in crisi dalla girandola di soluzioni creative in materia di orario scolastico, dall’alternarsi in cattedra di insegnanti precari e da tutta una serie di altre follie (dis)organizzative che non sto qui a citare), è impossibile riuscire a fare tutto: insegnare la letteratura con un minimo di approfondimento, praticare una corretta interdisciplinarietà, costruire un coerente ed efficace curriculum di scrittura, allenare per i test Invalsi, favorire in classe momenti di discussione e di approfondimento, valorizzare le capacità e recuperare le carenze, stimolare la creatività, insegnare il rigore, risolvere individuali e collettivi disagi psicologici e magari fare anche educazione alla salute, alla cittadinanza, stradale, alla sicurezza, all’affettività … e chi più ne ha più ne metta.

Ecco perché provo un grande fastidio per le periodiche lamentazioni mediatiche sui pessimi risultati dei nostri studenti (strettamente imparentate con un brutto genere letterario che andava di moda qualche anno fa: lo stupidario della maturità): risultati che sono autentici, intendiamoci, ma quasi mai sufficientemente spiegati e analizzati. Se l’insegnamento è inefficace nella maggior parte dei casi, può essere che la responsabilità sia imputabile non alla generica incapacità dei docenti, ma ad una degenerazione complessiva del sistema che prescinde dalla buona volontà, dalla competenza e dalla motivazione dei singoli. Insomma, come spesso accade, si guarda il dito, ma si dimentica la luna.

P.S. In coda al voluminoso rapporto Invalsi ho trovato questo illuminato suggerimento, che riporto per intero.

Uno dei problemi che il Progetto di ricorrezione ha evidenziato è l’incapacità, da
parte degli studenti, di affrontare il saggio breve. Incapacità che potrebbe talvolta
derivare dalla scarsa abitudine a rielaborare il contenuto dei documenti proposti,
gerarchizzarne le informazioni e saperne trarre un ragionamento compiuto ed aderente
alla traccia. Una soluzione possibile sarebbe quella di abituare lo studente ad elaborare
dei saggi, confrontandosi con più testi contemporaneamente, fin dall’inizio del ciclo
scolastico. A questo proposito sarà utile indicare un gruppo di siti in cui è possibile
usufruire di opere integrali (od estratti) dei più grandi filosofi, storici e scrittori della
nostra storia. Questi potranno quindi essere sfruttati dagli insegnanti proprio per far
esercitare gli alunni a svolgere dei saggi brevi in modo tale da non dover ricorrere solo
alle tracce ministeriali degli anni passati.
www.liberliber.it
Una straordinaria raccolta di testi (non più sottoposti a copyright) che si potranno
liberamente consultare, scaricare e riutilizzare. Vi si troveranno i più grandi autori
della letteratura italiana.
www.it.wikisource.org
Enorme banca dati legata alla rinomata enciclopedia online Wikipedia. Su questo sito
potranno essere consultati migliaia di testi in moltissime lingue diverse.
www.portalefilosofia.com
Nella sezione Raccolta testi didattici si potrà trovare un’ampia raccolta di testi filosofici.
Dai più antichi ai più moderni. Da sottolineare la possibilità di ricercare, all’interno
della sezione antologica, i testi per “parola chiave”.
www.filosofico.net
Altro portale utile per raccogliere testi filosofici. Gli stessi vengono organizzati secondo
un criterio cronologico ma risulterà utile anche il raggruppamento tematico: bioetica,
estetica, religione, pedagogia.

A parte la forma italiana e lo stile, che mi sembrano abbastanza discutibili, è proprio il contenuto del consiglio che mi ha lasciato basita. Va bene che i prof sono attardati, ma fino a wikipedia ci arrivano (sempre ammesso che l’aggettivo “rinomata” sia il più adatto per definire questa risorsa, la cui attendibilità risulta comunque controversa), se non altro perché rappresenta la fonte preferita dei loro studenti, ogni volta che a qualcuno viene la malaugurata idea di assegnare  un lavoro di ricerca.

Questa sitografia minimale suggerisce di fatto l’uso del “copia-incolla” via Internet per la stesura di compiti ed esercitazioni (il che getta una luce inquietante sul modo in cui vengono strutturate anche le prove ufficiali). Per esempio: Diego Fusaro, il giovane curatore del sito filosofico.net, è un benemerito della divulgazione filosofica in Rete (fra l’altro è fra i miei contatti di facebook), ma segnalare come fonte possibile per i docenti il medesimo luogo dal quale innumerevoli studenti hanno plagiato, copiaincollando, interi capitoli delle loro “tesine”, non mi pare esaltante dal punto di vista del metodo, anche se, indubbiamente, è un escamotage piuttosto pratico. Sarebbe opportuno che i professori avessero possibilità e voglia di costruire prove non generiche e raffazzonate,  ma incardinate sul loro effettivo percorso didattico, sulla base di una coerente bibliografia critica, arricchita di riferimenti all’attualità ( ad esempio attraverso il riferimento alle pagine culturali di quotidiani e riviste nonché alle migliori risorse online). Ovvero, i docenti dovrebbero continuamente studiare: ma siccome studiare richiede tempo, e il tempo degli insegnanti oggi si disperde in una moltitudine di obblighi burocratici e poco “didattici”, si tratta di un’esigenza destinata a rimanere un pio desiderio.

Ma questa è un’altra storia, della quale, forse, parlerò in futuro.

 

 

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4 risposte a Una volta, a scuola, c’era il tema (e forse c’è ancora)

  1. Questo intervento era necessario Lorenza. Hai messo in luce i molti nodi di una questione su cui si interviene troppo spesso banalmente o senza competenze.
    Si va dalla classica presa di posizione del collega di area tecnica o scientifica che, certo in buona fede, si chiama fuori (“non capiscono quello che leggono, ma tu glielo insegni l’Italiano?”) alla superficialità di chi decide che un esame di stato sia una selezione, in formato minore, di futuri giornalisti, saggisti e così via. La tua terza ragione di perplessità:
    “si impone di fatto un modello di conoscenza a senso unico, nozionistico nel senso più deteriore del termine” è poi fondamentale.
    Ho apprezzato moltissimo questo intervento, appassionato e competente. Proprio in questi giorni mi stavo chiedendo se non sia possibile metter mano a un documento redatto proprio dai docenti e che dica cosa pensiamo delle “prove di italiano scritto” e soprattutto possa tracciare almeno le linee essenziali, o chiamiamole le intenzioni, di una didattica diversa, di una proposta nuova e di rottura definitiva con le pezze e i rattoppi inefficaci e spesso grotteschi messi in atto in anni di riforme senza né capo né coda. Ho visto oltre trent’anni di scuola, e credo che sulle competenze dello scrivere in italiano (per dirla non in didattichese) si stia camminando all’indietro. Totale e completa la mia condivisione, anche sulla quella che tu benissimo definisci “ l’erosione massiccia di quello che un tempo era ritenuta un valore, ovvero la continuità didattica, messa in crisi dalla girandola di soluzioni creative in materia di orario scolastico, dall’alternarsi in cattedra di insegnanti precari e da tutta una serie di altre follie (dis)organizzative “

  2. Francesca Pacchini scrive:

    Il nostro “mestiere” in questi anni sta subendo una vera rivoluzione. Dobbiamo cambiare, rinnovarci e adeguarci ai ragazzi che non sono più gli stessi ed adeguarci al mondo in rapida evoluzione. Anche nella mia materia ci sono svariati problemucci, credo che dovremo fare una riflessione profonda sulle motivazioni dei ripetuti fallimenti degli studenti e sulle loro difficoltà, e tentare strade nuove. Anch’io concordo con te che le prove invalsi sono assurde, diseducative e poco utili dal punto di vista formativo.

  3. Costanza Fratini scrive:

    Cara Lorenza, condivido in pieno tutto quello che hai scritto con il consueto rigore argomentativo. La degenerazione è senz’altro NEL sistema e noi insegnanti -soprattutto noi “giovani” insegnanti- ne siamo, bene o male, figli solo un poco più degeneri dei nostri alunni. La fiducia nelle Riforme epocali l’ho persa da tempo ma un articolo che ho letto domenica sull’inserto del Sole mi ha infuso un sano ottimismo e mi ha rinfrescato la -pur debole- consapevolezza che spesso vacilla: molti di noi, in quel sacro spazio di libertà che ancora ci è concesso all’esercizio di una professione che resta e resterà sempre moralmente nobile, varano quotidianemente un’autoriforma, sospinti unicamente dalla propria onestà intellettuale, dalla curiosità, dalla fiducia nella conoscenza, nella comunicazione e nelle giovani persone che hanno di fronte. http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-04-01/professori-autoriforma-173625.shtml?uuid=Ab20MZHF&fromSearch

  4. Sono molto d’accordo con Costanza Fratini, in particolare sulla sua riflessione “molti di noi […] varano quotidianemente un’autoriforma, sospinti unicamente dalla propria onestà intellettuale, dalla curiosità, dalla fiducia nella conoscenza, nella comunicazione e nelle giovani persone che hanno di fronte.”
    Parole che fanno capire che la scuola è viva.

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